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Ecco perché la Cina non è un’economia di mercato. Report Bruegel

La diatriba sull’opportunità di riconoscere alla Cina lo status di economia di mercato (Mes) sembra a molti degli esperti una mera questione di tecnicismi, assai più formale che sostanziale. Ma non la pensano così i cinesi. Solo una settimana fa il premier Li Keqiang ha incontrato a Berlino la Cancelliera Angela Merkel per far discutere i relativi team di negoziatori anche e soprattutto degli investimenti bilaterali. Non è un caso che i cinesi si siano rivolti alla Germania: la mossa rientra in una navigata strategia della Cina di appellarsi ai paesi più forti in Europa per poi far pressione su Bruxelles. Ma questa volta il premier è tornato in patria a bocca asciutta: neanche volendo infatti la Cancelliera avrebbe potuto promettere alla Cina il riconoscimento dello status di Mes, una questione che spetta esclusivamente a Bruxelles e che è condizionata a un voto a maggioranza qualificata della Commissione. Prima di andarsene i cinesi, piccati per le aspettative deluse, hanno perfino rifiutato un comunicato congiunto di impegno comune sul Coop21.

Resta da chiedersi perché la Cina da anni ormai brami il riconoscimento di Mes. A dire il vero un simile passo non sarebbe una formalità: una volta riconosciuta come economia di mercato, sarebbe infatti più arduo per gli altri Stati accusare la Cina di dumping davanti al Wto o ad altri tribunali per la risoluzione delle dispute. La Cina da anni rassicura ufficialmente di voler continuare il cammino di liberalizzazione intrapreso fin dalla fine degli anni ’80. Ufficialmente, perché le statistiche mostrano invece che della vecchia economia pianificata dallo Stato e legata a doppio filo al Partito comunista cinese (Pcc) non è rimasta solo qualche traccia. Un recentissimo rapporto del Bruegel, curato da Alicia Garcia Herrero e Jianwei Xu, spiega perché l’Europa diffida degli investimenti cinesi e chiede reciprocità, durante i negoziati per un accordo di investimenti bilaterali che vanno avanti da ormai 3 anni.

C’è un’asimmetria evidente negli investimenti bilaterali fra Ue e Cina. Se è vero che l’Ue ad oggi è il primo partner commerciale dei cinesi, che a loro volta costituiscono il secondo partner dopo gli Usa per gli europei, lo squilibrio degli investimenti è rilevante. Quelli europei nel dragone si sono drasticamente ridotti tra il 2013 e il 2015, da 20,9 a 6.9 miliardi di euro. Gli investimenti cinesi nell’Unione europea nel 2015 ammontavano a 20 miliardi, il 41.9% di tutti gli investimenti all’estero. Due sono i principali problemi che rivelano la vera natura dell’economia cinese: le imprese di proprietà statale e l’accesso al mercato per gli investitori esteri.

Per quanto riguarda le prime, il rapporto del Bruegel le definisce “più grandi, più pervasive e dominanti rispetto alle controparti europee”. Fino agli anni ’80 le imprese in Cina erano quasi tutte statali. Negli ultimi 30 anni la liberalizzazione cinese ha aperto la strada alla privatizzazione di molti colossi. Eppure, spiegano dal Bruegel, troppo spesso dietro le imprese private si cela di nascosto lo Stato. La maggior parte dei proprietari delle imprese private ha infatti legami con il partito comunista, perché in Cina questo è l’unico modo per raggiungere agevolazioni di mercato altrimenti inottenibili. Delle imprese statali in Cina invece, una parte considerevole lavora nel settore manifatturiero: il 30%, con il 55% dei lavoratori statali, dati mostruosamente più alti rispetto alle statistiche europee rispettivamente del 2.8% e del 4.8%.

Prima del 1992, i manager di queste imprese statali erano ufficiali di governo. Ma anche a seguito della riforma di mercato introdotta dai cinesi, la maggior parte dei managers deve il proprio posto a una raccomandazione politica. Per questo le imprese statali in Cina costituiscono un problema serio per lo status di Mes: sono agevolate dallo Stato, non godono di indipendenza, e soprattutto perseguono obiettivi politici e non di mercato. Il rapporto cita esempi cristallini: ad esempio, la banca rotta non è mai un’opzione per questo genere di imprese. Quando rischiano di implodere, quasi sempre a causa di un eccesso di capacità, il governo le trasforma in “imprese zombie”, che non creano profitti né occupazione. Un altro caso è il trasferimento delle imprese su ordine di ufficiali di governo: è quel che è successo di recente a Pechino, quando il governo locale ha traslocato, infischiandosene delle conseguenze sui lavoratori e sul mercato, alcune imprese statali nelle aree extra urbane per ridurre la sovrappopolazione cittadina.

Finanziamenti preferenziali, sussidi statali, esenzioni e soprattutto l’accesso a informazioni di Stato delle imprese statali rendono in Cina la concorrenza estera un miraggio. Secondo il rapporto del Bruegel, la priorità nelle future negoziazioni dovrà essere soprattutto la garanzia di un equo accesso al mercato. Mentre i cinesi fanno man bassa di acquisti di imprese europee, tra i più clamorosi e recenti quello della Pirelli da parte di ChemChina e dei Louvre Hotels da parte di Shangai Jinjiang, gli europei faticano a investire nel dragone. Tra le barriere più ostiche, spicca l’Iniziativa per il Manifatturiero in Cina 2025, un mastodontico piano di investimenti per supportare il settore e abbattere la concorrenza.

Non è un caso che l’OECD posizioni la Cina come seconda tra i paesi più restrittivi verso gli investimenti stranieri. Tuttavia l’Europa non può ignorare l’immensità delle relazioni commerciali che la legano alla Cina. Nei negoziati futuri, sarà giusto e doveroso difendere le imprese europee dal dumping cinese con le opportune misure, senza però lasciarsi andare a dichiarazioni troppo dure, come quelle del presidente francese Emmanuel Macron, che avrebbero il solo effetto di rendere ostile un partner da cui non si può prescindere. Le priorità dovranno essere piuttosto il pressing sui cinesi per la liberalizzazione (o meglio, de-statalizzazione) del mercato e sull’istituzione di nuovi tribunali internazionali per la soluzione delle dispute fra gli investitori.



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