Theresa May la sconfitta se la è andata a cercare. E, visto che è una signora elegante, si può dire che le sta meglio di un vestito nuovo. Una leader chiamata a gestire l’incidente della Brexit avrebbe dovuto seguire, divenuta premier, una linea di condotta diversa. E, cioè, ricordare (senza farselo dire dall’Alta Corte) che il referendum era consultivo e che a decidere sull’uscita dall’Unione spettava al Parlamento, tentando nel contempo di avvalersi della sua influenza per non ottemperare alle indicazioni del voto popolare. Una scelta siffatta avrebbe provocato qualche polemica, ma alla fine si sarebbe rivelata giusta ed opportuna. E gli elettori, alla fine, ne avrebbero attribuito il merito alla May la quale, sia pure navigando controcorrente, se ne era assunta la responsabilità.
“Alla faccia della democrazia”, dirà qualche anima bella. No. Non esiste una democrazia che giustifichi l’autolesionismo. La Brexit (il voto di giovedì ne è una diretta conseguenza) ha portato all’instabilità e all’ingovernabilità nel Regno Unito; ha regalato alla sinistra reazionaria di Jeremy Corbyn (così la chiamava Tony Blair) un successo imprevisto; ha diviso il Paese; ha mandato a picco la sterlina. L’esito del voto dell’8 giugno nel Regno Unito serva da monito per tutte quelle forze che preconizzano (anche in Italia) l’uscita dalla Ue e che avevano assunto come propria icona l’algida premier britannica.
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Il buon risultato del Labour di Corbyn ringalluzzirà gran parte della sinistra italiana. Diranno i vari esponenti della galassia antagonista del Pd: “La sinistra deve tornare a fare il suo mestiere: più Stato, più spesa pubblica, più welfare”. Magari in Italia arriveranno a proporre di nazionalizzare l’Alitalia e l’Ilva, in nome della difesa dell’occupazione (a proposito: come è stata accolta la proposta di Ryanair di assumere gli esuberi dell’Alitalia?). Tutto ciò va messo in conto a Theresa May.