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Perché l’Europa non può dare troppe lezioni sul clima a Trump. Parla il prof. Clò

g7 energia, alberto clò

Il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo sul clima di Parigi del 2015 ha provocato dure reazioni da parte del mondo politico mondiale. Prima di tutto in Europa, a partire dal presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, passando per Angela Merkel, Emmanuel Macron e Paolo Gentiloni.

L’accordo di Parigi si è posto l’obiettivo di ridurre drasticamente le emissioni di CO2 e conseguentemente il riscaldamento globale. Per raggiungerlo l’adesione dei Paesi industrializzati, come gli Stati Uniti (responsabili del 16% di tutte le emissioni) è indispensabile. Eppure non sono pochi gli esperti che ritengono non così impattante la decisione di Trump. Fra questi, il professor Alberto Clò, economista e direttore della Rivista Energia che ha appena licenziato per Il Mulino un volume dal titolo “Energia e Clima: l’altra faccia della medaglia”.

Professore, come giudica la mossa di Donald Trump?

Sul punto vedo molta ipocrisia e scarsa conoscenza delle cose. Partiamo col dire che mettere Trump con le spalle al muro a Taormina (nell’ultimo G7, ndr) è stato un errore politico. Sul clima era in corso un forte dibattito nella stessa Casa Bianca che aveva anticipato che ogni decisione sarebbe stata presa successivamente. Quella del “G6 contro G1” mi è parsa una forzatura che ha sbilanciato gli equilibri verso la disdetta degli accordi.

E nel merito, che conseguenze avrà sul clima?

Non molte. L’America continuerà a ridurre le emissioni forse ancor più dell’Europa. Non sono negazionista, ma bisogna dire tutta la verità. E la verità è che Parigi non è un pasto gratis. Dar seguito agli impegni presi avrà un costo elevatissimo, si è stimato sino a 100mila miliardi dollari. Decarbonizzare significa cambiare drasticamente il sistema energetico ed economico globale. Al posto di Trump avrei chiesto agli altri sei: dopo Parigi, che azioni avete concretamente intrapreso? Si sostiene – e non ne dubito – che non ridurre le emissioni avrà conseguenze catastrofiche. Mi sarei aspettato che la transizione energetica verso il dopo-fossili fosse posta al primo posto dell’agenda politica. Invece dal 2015 non si è avviata alcuna accelerazione delle azioni. “Business as usual” è l’atteggiamento dominante. Oggi il rapporto fra l’utilizzo di fonti fossili e nuove rinnovabili (specie eolico e solare) è di 85,9% contro 2,8%, cioè 30 a 1. Decarbonizzare significa invertirlo. Io, da cittadino che ha a cuore le future generazioni, mi sarei aspettato decisioni da parte dell’Europa, tutta presa da altre emergenze (terrorismo, banche, finanze pubbliche, etc). L’unico Paese che ha fatto un piano per la decarbonizzazione nella generazione elettrica è la Germania, ma con grande ipocrisia, perché aumenta le rinnovabili ma non riduce il carbone, mentre apre miniere di lignite.

Dal punto di vista politico che effetto avrà l’annuncio di Trump?

Credo che avrà grossi problemi interni con gli Stati, le Corti di giustizia, la Corte suprema, il partito Repubblicano, la stessa industria energetica. Credo comunque che gli Stati Uniti continueranno a ridurre le emissioni non per l’effetto di leggi od ordinanze, ma per dinamiche di mercato. Lasciamo perdere le promesse elettorali che ha fatto Trump nei distretti carboniferi, che non avranno seguito. La tendenza a investire sulle rinnovabili (46 miliardi dollari nel 2016) proseguirà, perché negli Stati Uniti si investe dove e se è redditizio farlo. Nello scorso decennio gli Stati Uniti hanno ridotto le emissioni del 10% sostituendo il carbone col molto più conveniente metano. Tendenza che proseguirà. In realtà quello che oggi Trump dice con toni maldestri lo dicevano Clinton e Obama: tutelare l’ambiente senza danneggiare l’economia americana. La materia ambientale americana è stata storicamente bipartisan. Fu Nixon a istituire nel 1970 l’Environmental Protection Agency e Reagan a firmare il Protocollo di Montreal del 1987 contro il ‘buco dell’ozono’ mentre fu Clinton a bocciare il Protocollo di Kyoto e Obama a far fallire la Conferenza di Copenaghen del 2009. Durante il mandato di Obama la produzione di petrolio e metano ha conosciuto la maggior crescita tra tutte le presidenze post-belliche.

Ma la politica green è più costosa, cosa spingerà l’industria a investire lì?

Chiariamo una cosa: la convenienza dell’energia rinnovabile è di molto cresciuta ma dipende da vari fattori, fra cui il tasso di utilizzo e condizioni meteorologiche. Non si può paragonare la ventosità della Nuova Zelanda e quella della Toscana, o l’irraggiamento solare del Texas con quello di Berlino. L’America, grazie al mercato, sta riducendo le emissioni. Anche l’Europa lo sta facendo, ma grazie a leggi e sussidi. Il risultato è che il taglio delle emissioni ha avuto per noi costi molto più elevati. I prezzi dell’elettricità e del gas in Europa sono tre-quattro volte quegli degli Usa e questa divaricazione rischia di aumentare. Ecco perché non mi strapperei i capelli dopo le decisioni di Trump. Non cambierà granché. Ricordiamoci poi che l’accordo di Parigi non è vincolante, non prevede sanzioni, e si basa unicamente sulla buona volontà degli Stati.

Quindi cosa dovrebbero fare gli Stati?

Sono necessari investimenti straordinari, specie nella ricerca e sviluppo. Sarà la tecnologia, come sempre, che ci toglierà dai guai. Il potenziale di risparmio energetico è ancora elevato ma non basta evocarlo perché lo si persegua. Mentre le spese in R&S sono crollati a livelli irrisori. Anche da parte dell’industria pubblica che vi ha preferito i dividendi. L’innovazione tecnologica non si può poi limitare a solare ed eolico: deve decidere il mercato dove occorre investire, non lo Stato. Gli incentivi alla lunga sono contro l’innovazione, mentre è bastato si riducessero perché gli investimenti in Europa nelle rinnovabili si dimezzassero.

Il comportamento meno ambientalista è di chi la fa troppo facile. Occorre accettare il fatto che ancora per decenni non potremo fare a meno delle fonti fossili. Servirebbe poi creare una consapevolezza nuova, modificare radicalmente il nostro sistema di valori, i nostri comportamenti quotidiani, i nostri stili di vita.

Quindi non possiamo realisticamente pensare di poter abbandonare le fonti fossili?

Una zero carbon society oggi è impossibile, anche se può costituire un modello verso cui tendere. Eppure ci sono segnali positivi. Le emissioni globali negli ultimi tre-quattro anni si sono stabilizzate nonostante una crescita del 3%. Merito di più fattori: dal rallentamento delle economie asiatiche, alla maggior efficienza energetica, alla sostituzione del carbone col metano, allo sviluppo delle rinnovabili. Ma mi sorge un dubbio: non sarà anche che le previsioni fossero errate, come accaduto in passato con le piogge acide e buco dell’ozono?

Come reagirà la Cina all’annuncio di Trump?

La Cina è determinata a dar seguito agli accordi di Parigi. Del resto sulle rinnovabili nel 2015 ha investito più di Stati Uniti ed Europa insieme. Per il presidente Xi Jinping la lotta ai cambiamenti climatici non è meno prioritaria della lotta alla povertà. Ma non c’è solo la Cina: ci sono anche Russia e India. Per questo il prossimo G20 di Amburgo sarà molto più significativo del G7 di Taormina.


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