Mercoledì 7 giugno un F-15 Strike Eagle americano è intervenuto nei pressi di al Tanf, nel sud della Siria, a cavallo tra il confine giordano e iracheno, per abbattere un velivolo senza pilota che aveva sparato alcuni missili contro una guarnigione in cui si trovano le Maghawir al-Thawra o “Commandos of the Revolution”, che sono una forza ribelle supportata dagli americani per combattere lo Stato islamico. Quella zona è piuttosto importante per il Califfato, perché rappresenta una tratta di collegamento Siria-Iraq che le forze della Coalizione internazionale stanno cercando di tagliare per rendere ancora più complessa la vita ai baghdadisti — già accerchiati e vicine alla caduta nelle due capitali, Raqqa e Mosul.
Come noto l’IS non possiede una forza aerea, e infatti quel drone era di proprietà di una delle milizie sciite che danno sostegno al regime siriano e in quell’area sono coordinate dagli Hezbollah libanesi, alleati proxy iraniani con cui Teheran controlla il campo al fianco di Damasco. Dunque il velivolo che sparava contro quelli che stanno a terra a combattere l’IS era, semplificando, un mezzo dell’aviazione di Bashar el Assad.
Il colonnello Ryan Dillon, un portavoce della Coalizione con la faccia tipica del soldato americano (capelli cortissimi, basette alte e mascella squadrata), ha spiegato che il velivolo senza pilota aveva oltrepassato lo spazio aereo sopra a quella che viene considerata da Stati Uniti e Russia come un’area di de-conflicting di raggio 34 chilometri – si chiama così perché in quella zona Mosca e Washington hanno deciso di ignorarsi, e questo i russi l’hanno concesso senza troppi problemi perché laggiù non hanno interessi, dato che non c’è niente salvo i ribelli che combatto l’IS e se ne infischiano della guerra civile in atto, dunque possono stare secondo il Cremlino. Gli Stati Uniti hanno invece particolarmente a cuore le sorti dell’area per il valore tattico-strategico di quel pezzo di guerra al Califfato, in cui hanno investito: acquartierati con i Commados anti-IS siriani ci sono dei team di unità speciali dei Ranger americani e SAS inglesi, che li stanno addestrando e accompagnando durante le battaglie (accompagnare è il verbo con cui si possono definire le operazioni ibride di consulenza che questi reparti occidentali compiono al fianco dei gruppi locali che combattono i terroristi, che spesso sfociano nel coinvolgimento diretto in scontri a fuoco, ma in via non ufficiale e solitamente lontana dalle news).
Dunque, tirando le somme, un drone in mano agli Hezbollah stava bombardando gli americani. Dillon dice che si trattava di un mezzo “delle dimensioni di un RQ-1 Predator”, per questo gli esperti concordano nel dire che il velivolo abbattuto era uno Shahed 129, che è fabbricato e progettato in Iran e che Teheran ha messo a disposizione del regime siriano in Siria. Se si tirano ancora di più le somme, è impossibile pensare che gli iraniani non sapessero quello che stava succedendo, e dunque l’Iran stava cercando di colpire con un velivolo i militari americani che combattono il Califfato nel sud della Siria.
Perché? C’è un interesse iraniano, perché di là passano linee di comunicazione interne alla mezzaluna sciita di controllo iraniano, che scende dalla Repubblica islamica per Iraq Siria e arriva in Libano; i governativi stanno cercando di conquistare uno sbocco sul confine iracheno. Ma la strategia è anche spingere la situazione a un’escalation che presupponga un coinvolgimento ulteriore di Washington, e a quel punto mettere la Casa Bianca davanti a una scelta cruciale: scendere in campo col rischio di dover fare la guerra aperta contro gli iraniani, o accettare la situazione e ritirarsi. La sfida per l’amministrazione Trump: continuare sulla linea tosta intrapresa contro l’Iran, e lasciare indietro la teorizzazione del disingaggio dalle crisi internazionali; oppure viceversa, e tornare a un ruolo di leadership globale.
Per capirci, quello che è successo pochi giorni fa ad Al Tanf segna la prima occasione negli ultimi vent’anni in cui truppe americane finiscono sotto attacco da parte di una nazione ostile, e il secondo caso in cui un F-15 abbatte un altro velivolo in un conflitto aereo – il primo nel 1991 contro un elicottero Mi-24 iracheno.
Martedì 6 giugno due F/A 18 americani s’erano alzati da una portaerei nel Mediterraneo per lanciare quattro bombe guidate contro dei mezzi militari che quelle stesse milizie sciite che comandavano da terra lo Shahed 129 avevano spostata all’interno del perimetro protetto della base di Al Tanf. È il secondo episodio del genere in poche settimane, è il terzo attacco diretto americano contro le forze del regime siriano – il primo, si ricorderà, fu la salva di Tomahawk in ritorsione per la strage chimica di Idlib. La Russia, attraverso il ministro degli Esteri, ha definito l’azione una violazione di sovranità siriana ignorando l’accordo di de-conflicting. La milizia sciita che si trova in quella zona ha parlato tramite il canale media militare di Hezbollah avvertendo che la “linea rossa” è stata superata dagli americani. Dillon, senza specificare dettagli sulla composizione delle forze assadiste nell’area, per la prima volta ha detto che c’erano anche reparti dell’esercito regolare tra quelli che avevano sconfinato.