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Che cosa cambia per i jihadisti in Italia con lo Ius soli

Muslim ban velo

La legge di riforma della cittadinanza in calendario oggi in Senato è ottima cosa, ma ci sono delle precisazioni necessarie da fare. Cominciamo con il provvedimento. Rivedendo le precedenti disposizioni risalenti al 1992, la nuova legge consentirebbe ai figli degli immigrati nati in Italia da almeno un genitore straniero residente in Italia da più di cinque anni di ottenere la cittadinanza italiana. È dunque, come è stata definita, una forma di ius soli temperato, diversa dalle norme – lo Ius soli, per l’appunto – in vigore in paesi come Francia e Gran Bretagna dove la concessione della cittadinanza è automatica. L’accesso alla cittadinanza secondo la riforma in discussione in Senato sarebbe consentito anche sulla base di una seconda strada, quella che è stata definita dello ius culturae: si diventa cittadini italiani anche se non si è nati in Italia ma se si è frequentato con profitto un intero ciclo scolastico.

Così impostata, la legge appare un passo in avanti in direzione dei paesi civili. Perché non può essere definita tale la condizione di un Paese dove esistono persone italiane da tutti i punti di vista (culturale, linguistico, antropologico) ma che agli occhi dello Stato sono straniere. Basta, insomma, con gli italiani di serie A e di serie B, con i compagni di scuola che sono “diversi” solo perché hanno una pelle differente e un cognome peculiare anche se sotto tutti gli altri punti di vista – passioni, abitudini, mode, sogni, aspirazioni – non presentano alcuna differenza rispetto ai coetanei autoctoni.

Veniamo, ora, al ma. Secondo i proponenti, la riforma viene partorita anche per favorire l’identificazione dei nuovi cittadini con il nostro Paese. Per far sì cioè che i ragazzi nati e cresciuti in Italia si sentano pienamente ed orgogliosamente italiani e sviluppino lealtà nei confronti delle nostre (loro) istituzioni.

L’impostazione del ragionamento non è sbagliata, se non fosse che dove in Europa vige lo ius soli (non temperato) spesso e volentieri l’ex immigrato non sviluppa alcuna identificazione con il paese ospite, né alcun orgoglio nei suoi confronti. Anzi, questi soggetti conservano integralmente l’identità di origine, anche se è quella dei genitori o dei nonni, e sviluppano la propria lealtà solo nei confronti dei propri connazionali o correligionari. Il problema è più cogente nel caso dei musulmani, dove persino tra le terze generazioni vi sono persone che si percepiscono più islamiche che francesi, belgi o inglesi.

Questo problema è strettamente legato ad un altro. Molto spesso, le comunità di immigrati, cittadini e non dei paesi ospitanti, vivono in condizioni di autosegregazione. Si autoghettizzano, colonizzano interi quartieri dove nulla, dal punto di vista semiotico, ricorda il Paese in cui formalmente ci si trova. In casi non rari, specialmente con le donne, non si sviluppa nemmeno la volontà di imparare la lingua del paese di cui si ha la cittadinanza. Se vivi in una “medina” europea, dove tutto ciò che vedi ha fattezze islamiche, non hai bisogno di parlare francese o inglese per fare acquisti o transazioni di altro tipo.

In termini sociologici, questa situazione può essere definita come di mancata “assimilazione”. Non si fanno propri cioè gli elementi della cultura del paese in cui si è residenti, e si vive secondo regole che nulla hanno a che fare con tale paese. Più che di integrazione, si deve parlare in questo caso di coesistenza, e sappiamo che tale coesistenza può non essere pacifica.

E questo ci porta a parlare del problema dei problemi: i jihadisti. Si è giustamente sottolineato che, una volta concessa la cittadinanza, verrebbe meno per lo Stato italiano la possibilità di ricorrere ad un provvedimento di espulsione, come suole fare il Ministero dell’Interno in tutte quelle circostanze in cui il soggetto rappresenta una minaccia per la sicurezza nazionale. In presenza di un sospetto jihadista munito di cittadinanza italiana, l’unica cosa da fare sarebbe prendere tutte le misure necessarie per tenerlo sott’occhio, sorvegliarlo, tallonarlo e impedirgli di fare il passo dall’entusiasmo per l’ideologia jihadista all’azione. Cosa che richiede un impegno non da poco e numerose risorse da parte delle nostre istituzioni.

In conclusione, salutiamo con favore la riforma sulla legge della cittadinanza, nella piena consapevolezza che – sempre che il provvedimento passi – da oggi in poi i jihadisti italiani diventano, oltre che una realtà sociologica, anche un fatto giuridico.

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