Quando nel 1982 divenne il Cancelliere tedesco, la figura di Helmut Kohl non si stagliava certo nel panorama politico del suo paese. Era lontano, come immagine e come prestigio, dal vecchio cancelliere Konrad Adenauer che aveva preso in mano ad oltre 80 anni la Germania distrutta e sconfitta e l’aveva riportata fra le nazioni civili. Come lo era da Ludwig Erhard, l’artefice all’inizio degli anni ’50, del miracolo economico tedesco.
Non era Willy Brandt che aveva ristabilito i rapporti, con la sua Ostpolitik, con i Paesi che più avevano vivi i ricordi dell’invasione tedesca. Né era il socialdemocratico Helmut Schmidt che, pur mantenendo l’apertura verso l’Oriente, aveva avuto il coraggio decidere di installare in Germania i missili Pershing e Cruise per rispondere alla minaccia da parte dell’Unione Sovietica dei missili a media gettata indirizzati verso le capitali dell’Europa occidentale.
Ed anche in Europa la sua figura era di secondo piano, se posta a confronto con la personalità e la retorica rinascimentale di François Mitterand o la personalità dura e spigolosa di Margaret Thatcher. No, Kohl dava ed aveva l’immagine di un politico di seconda fila, giunto al potere per l’esaurirsi delle classi dirigenti cristiano democratiche e socialiste del primo trentennio del dopoguerra, destinato a una onesta e poco significativa presenza sulla scena tedesca ed europea – un personaggio di transizione.
Ma le qualità degli uomini politici non si possono conoscere se non nelle vive circostanze storiche. E quando nell’estate del 1989 cominciarono ad ammassarsi ai confini dell’Austria i cittadini della Germania orientale che avevano l’impressione che l’Unione Sovietica di Gorbaciov non fosse più in grado di bloccare ogni anelito di libertà e soprattutto quando, inaspettatamente per tutti, ed anche per il Governo tedesco, il 9 novembre dello stesso anno, crollò il Muro di Berlino, Kohl assurse spontaneamente, forse senza che gli altri se ne rendessero conto e forse lui stesso scoprendo in sé qualità di leadership di cui forse non era consapevole, la statura di un uomo di Stato.
L’Europa non aveva reagito con gioia alla caduta del Muro. Anzi il sentimento più netto che si coglieva in quei giorni era la preoccupazione che la Germania potesse riunirsi. Mitterand – si legge nelle memorie della Thatcher – le telefonò dicendo che gli scontri fra loro – che erano stati virulenti – dovevano cessare perché nei momenti di pericolo Francia e Inghilterra doveva essere fianco a fianco. E il nostro Andreotti rispolverò una frase di un tempo dicendo che egli amava così tanto la Germania che era felice ve ne fossero ben due.
Mitterand convocò, per la seconda decade di novembre, un vertice europeo che, nelle sue intenzioni, doveva rallentare il più possibile la riunificazione tedesca. Kohl certo non fece polemiche, ma, prima di quel vertice, andò negli Stati Uniti dal presidente Bush e chiese se l’America era favorevole alla riunificazione della Germania e, in caso affermativo, se essa potesse fare da mallevadore con Gorbaciov per cominciare a discutere subito la possibilità della riunificazione. Furono offerti dalla Germania fondi ingenti all’Unione Sovietica per consentire la riunificazione. E quando gli europei, spaventati, si riunirono, Kohl era già andato davanti al Bundestag delineando un programma in dieci punti per l’immediata riunificazione tedesca.
Ai lander dell’est egli offrì condizioni finanziarie favorevoli e quando il presidente della Bundesbank mosse delle obiezioni, Kohl gli spiegò semplicemente che la politica veniva prima dell’economia e lo stesso gli disse quando dovette accettare la proposta di Mitterand di accelerare l’unione monetaria europea, pensando, Mitterand, che togliendo il marco alla Germania l’avrebbe legata per sempre al carro dell’Europa.
Dopo poco il presidente della Bundesbank se ne andò e dopo altrettanto poco tempo la Germania Ovest inglobò i lander dell’est e si accinse a riversare in essi una quantità enorme di denaro per rimetterli in piedi e, per farlo, la Germania non si fece fermare dalla regole di Maastricht o dalle chiacchiere sulla necessità di tenere i bilanci in ordine. Perché Kohl sapeva che la politica, quando affronta problemi seri, non si può far fermare dagli ostacoli dei tecnici o degli economisti.
Poi dopo qualche anno la Germania si era stancata di Kohl e lo mandò a casa in quattro e quattr’otto. Ma Kohl accettò questa sorte con modestia. Del resto, non aveva l’Inghilterra mandato via, a pochi mesi dalla fine della guerra, quel Churchill che aveva saputo salvarla da una sconfitta che appariva allora sostanzialmente inevitabile? E come continuiamo a ricordare Churchill, così faranno bene non solo i tedeschi, ma tutti gli europei, a ricordarsi di quest’uomo modesto che però ha saputo servire la politica nel modo più alto, quando il momento lo ha chiamato.