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Proporzionale: molti governi, molto debito?

giovanni, ROBERTO SOMMELLA, costituzione

Due governi Cossiga, due governi Spadolini, due governi Fanfani, due governi Craxi, due governi Andreotti e un governo targato rispettivamente Forlani, Goria e De Mita. Il rosario è il numero di esecutivi (tredici) che si sono succeduti nell’ultimo dodicennio di vita del sistema elettorale proporzionale, dal 1979 al 1991, prima che fosse sostituito dall’unica esperienza maggioritaria della Repubblica, il Mattarellum, dal nome del Capo dello Stato. Tredici governi in dodici anni hanno prodotto un’instabilità finanziaria oltreché politica. Lo sostengono ormai quasi tutti gli storici e gli analisti politici, ma basta anche digitare su Google ‘’debito pubblico dal 1946 ad oggi’’ per averne conferma. Senza ipocrisie e consapevoli che non è il modo di votare ma il modo di spendere a creare il debito, dobbiamo però chiederci: il nostro debito pubblico, ora a quota 133% del Pil, può peggiorare con un modello di voto proporzionale come è quello con cui probabilmente si voterà?

Il momento di picco dell’indebitamento statale, che oggi continua a perseguitare i sonni dei ministri dell’Economia, si è raggiunto tra il 1981 e il 1991, quando il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo è più che raddoppiato, passando dal 58,5% (sotto i limiti di Maastricht) al 99%. In molti ricordano che parte di questa incredibile crescita è dovuta al divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, che sancì l’impossibilità per la banca centrale di comprare obbligatoriamente i titoli di stato residui dopo le aste. Questa scelta, in vista dell’ingresso nello Sme e poi nella moneta unica, comportò un aumento dei tassi d’interesse, è vero, ma non ci sono controprove se con dieci governi in sella il debito pubblico in conto capitale non sarebbe comunque aumentato lo stesso, anche senza divorzio. E poi c’è un argomento fondamentale: senza quella dissoluzione di matrimonio, non saremmo nell’Unione Monetaria e stamperemmo ancora lire, magari essendo costretti, di tanto in tanto, a chiedere prestiti in presenza di shock finanziari, come accadde nel 1974 con la Germania che, a fronte di un assegno da 2 miliardi di dollari, pretese in pegno camion di oro della Banca d’Italia.

Insomma, non abbiamo alle spalle proprio una storia tedesca, come il modello elettorale che il Parlamento ha provato inutilmente a votare. Il sistema elettorale della grande spartizione del dopoguerra, almeno dopo gli anni del boom economico, è alla base dell’impennata del debito pubblico, ha prodotto una sessantina di governi spesso quadri o pentapartitici e ha contrassegnato l’utilizzo della spesa pubblica come strumento di politica economica. Cassa del Mezzogiorno, scala mobile, baby pensioni, indennità di invalidità e sprechi di vario genere hanno nutrito dalla metà degli anni settanta ai primi anni novanta la “bestia” del debito pubblico, alimentando divari sociali a prescindere da chi sedesse a Palazzo Chigi. Le varie istanze delle basi elettorali erano troppo diverse per condurre ad una riduzione dell’indebitamento.

E, va detto con onestà, anche i vari governi succedutisi nella prima decade del nuovo millennio poco hanno fatto per tagliare il debito pur essendo espressione di una legge maggioritaria (in vigore dal 1994 al 2005) anche se in quel periodo la curva era calante.
Il risultato è che oggi, appena nato, un italiano si trova subito sulla testa una bella ipoteca di 35.000 euro che lo accompagnerà dalla culla alla pensione. Suscita quindi qualche perplessità non tanto la voglia degli attuali partiti di tornare ad un regime elettorale il più rappresentativo possibile, quanto un’operazione di rimozione collettiva dei mali del nostro indebitamento pubblico, arrivato a superare complessivamente la cifra record a maggio 2017 di 2.260 miliardi di euro in un’epoca peraltro di tassi zero. Sono sicuri Pd, Forza Italia, Lega e Movimento Cinquestelle nell’imboccare senza discussioni questa strada, dove un eventuale governo di grande coalizione poco potrebbe fare per mettere mano al Tagliadebito, che invece tutti ormai reclamano, dall’Unione Europea agli stessi banchieri?

L’Italia è nell’euro grazie alla solenne promessa che Carlo Azeglio Ciampi fece al ministro delle Finanze tedesco Theo Waigel: Roma scenderà sotto il 100% del rapporto debito-Pil (Maastricht prevede il 60%). Ci riuscimmo per pochi anni, giusto in tempo per entrare nell’Unione monetaria. Poi, complice anche la crisi dei bond sovrani, la curva si è impennata di nuovo dopo il 2008.
Chi avrà incarichi di governo dovrà trattare il rispetto del Fiscal Compact, considerando anche questo particolare collegamento tra debito, sistema elettorale, durata dei governi. Senza dimenticare quella promessa fatta a Berlino.



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