L’asse saudita-emiratino che ha isolato il Qatar continua il pugno duro, minaccia di rovesciare Doha e intavola trattative (anche via Kuwait). “Capire fin dove è disposto ad arrivare Riad, e su che cosa Doha farà concessioni, è il vero punto di caduta della situazione”, spiega in una conversazione con Formiche.net Uberto Andreatta, senior corporate governance advisor presso lo Studio Legale Scala di Milano, esperto di fondi sovrani e investitori di lungo termine.
Ecco, appunto, fino dove si arriverà? “Diversi analisti mi sembra concordino sulla possibilità che i sauditi vogliano spingere un coup, ma mi viene da dire ‘auguri!’, perché sarebbe un processo veramente cruento”. Si parla del coinvolgimento di alcuni elementi della corona qatariota con cui sauditi ed emiratini sono in contatto, spiega Andreatta, “ma probabile sia un bluff per spingere il Qatar a concessioni, spingendo anche sulla forza che la posizione americana ha dato a Riad, e ad Abu Dhabi”.
Ma qual è stato il ruolo dell’amministrazione Trump? “Se accade quello che accade è perché siamo ancora davanti ad una situazione di disequilibrio alla Casa Bianca e a Washington in generale. Il presidente americano Donald Trump s’è esposto parecchio dietro all’Arabia Saudita e al suo network, e questo, unito anche ai processi dinastici interni e a una sorta di sentimento psico-sociale d’incertezza che segna una cambio di generazione, ha spinto Riad a muoversi forte contro Doha”. Non a caso, si parla delle differenza di quello che sta accadendo – considerato molto più aggressivo – con una circostanza simile avvenuta nel 2014: prima in Arabia Saudita c’era re Abdullah, ora molto potere ce l’ha Mohammed bin Salman, che è in competizione interna, secondo in successione, e per questo spinge anche mosse azzardate, sentendosi le spalle protette dagli americani, spiega Andreatta. “Francamente non so quanto in realtà Trump sia interessato alla situazione, a lui interessano i jobs, i posti di lavoro, ha obiettivi materiali: tutto quello che porta a casa commesse lavorative è buono per lui. Da lì l’amore per i sauditi”.
Però insieme a Trump si muovono colossi economici-finanziari. “È qui il punto vero. Con Trump a Riad si è mosso Blackstone, il gigantesco fondo d’investimento co-fondato da Stephen Schwarzman, che è anche il capo dello Strategic and policy forum del presidente, e ha ottenuto un’iniezione di 40 miliardi di dollari sauditi da re-investire in infrastrutture americane, oppure il Ceo di SoftBank, Masayoshi Son, tra i primi a vedere il presidente eletto a inizio dicembre 2016, che ha piantato interessi comuni con i fondi sauditi (settore hi-tech). Ecco, sono questi monoliti, che ci sono e resteranno oltre le presidenze, che sono al momento elementi di equilibrio”.
Giganti che non cercano guerra. “No di certo. Prendiamo un altro esempio: il capo della Rosneft, Igor Sechin, qualche giorno fa si è fatto intervistare dal Financial Times – “Non dalla Tass, ma da uno dei più autorevoli e ascoltati giornali del mondo, dunque aveva intenzione di dire cose forti”, chiosa Andreatta – e ha detto che per il Medio Oriente servirebbe un accordo sul petrolio tra le tre ‘authorities’ le ha chiamate: Stati Uniti, Russia e Arabia Saudita”. Perché quello che dice Sechin è così interessante? “Perché è uno degli uomini dell’inner circle putiniano, che guida il colosso petrolifero russo, che ha tra i suoi soci la QIA, la Qatar Investment Authority, ossia il fondo sovrano.
“Ecco, questo ci spiega una cosa – continua Andreatta – ossia che ci sono degli investimenti attivati da fondi strategici che difficilmente vedono di buon occhio certi scossoni come un cambio di regime, e dunque un cambio di guida. Voglio dire, un conto è l’investimento immobiliare della QIA a Porta Nuova a Milano o al Claridge di Mayfair, un conto è l’iniezione di miliardi nella privatizzazione di Rosneft, un asset strategico di una potenza nucleare. Se la Russia ha scelto il Qatar, lo ha fatto non perché aveva semplicemente i soldi da investire, quelli li avrebbe potuti trovare altrove, per esempio in Kuwait e negli Emirati, ma perché voleva un elemento di contatto tra due mondi intra-islamici, che fosse al limite pseudo-stabilizzante”.
Appunto, il contatto sciiti-sunniti: in molti parlano che le relazioni con l’Iran del Qatar siano uno dei motivi profondi che ha spinto gli altri stati del Golfo ad isolarlo. “Parliamoci chiaramente: il Qatar non può prescindere da questa situazione, perché condivide con l’Iran il South Pars, il gigantesco bacino di gas naturale nel Persico, e la forza qatariota è nell’essere il principale esportatore al mondo di gas naturale. Come potrebbe bloccare quelle relazioni con Teheran? E ancora: ma siamo sicuri che un eventuale cambio di linea secondo una postura più rigida imposta dai sauditi contro gli iraniani, sia conveniente per Riad, piuttosto che avere a diretto contato con la Repubblica islamica la presenza del Qatar come stato cuscinetto?”.
Il gas è un altro dei buoni esempi per capire altri punti di caduta di questa crisi. “Certo, oltre che alla questione con l’Iran, c’è da valutarne un’altra: cosa farà l’Egitto? Attualmente il Cairo è tra i paesi allineati con i sauditi sull’isolamento qatariota, ma cosa succederà, chiuderà il passaggio di Suez ai carichi di gas naturale liquefatto che portano il bene qatariota in Europa? E poi, cosa accadrà a Zohr, dove Rosneft finanziata dal Qatar è dentro per il 30 per cento?”.
“C’è anche un altro aspetto – aggiunge Andreatta – che riguarda le ricadute a livello di governance all’interno dell’International Forum of Sovereign Wealth Funds, nel cui board siedono sia il Ceo di QIA, sia il capo dell’executive committee di ADIA, l’Abu Dhabi Investment Authority”.