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Ecco cosa dividono Trump e Comey sul Russiagate

Watergate, clima, Donald Trump e Melania Trump

Venerdì pomeriggio, durante una conferenza stampa dal Rose Garden della Casa Bianca in occasione delle visita dell’omologo romeno, il presidente americano Donald Trump è tornato sull’audizione in Senato dell’ex capo dell’Fbi James Comey, e ha tracciato la linea della sua difesa personale. Che nell’estrema sintesi che ne fa l’opinione pubblica, soprattutto quella che compone la sua base elettorale, dice: Comey è un bugiardo, tutto quello che ha detto a proposito dei nostri incontri è falso.

NIENTE RICHIESTE SU FLYNN

Trump ha negato di aver chiesto all’ex direttore del Bureau di lasciare andare l’amico ed ex consigliere Michael Flynn, al centro del Russiagate (e di altre indagini federali), richiesta invece messa esplicitamente nero su bianco da Comey nella dichiarazione scritta che ha preceduto la deposizione, e poi confermata davanti alle domande dei senatori. Non serve accedere ai testi di giurisprudenza per dire che questo significa accusare di spergiuro colui che fino al 10 maggio – prima che Trump stesso lo licenziasse – ha diretto il corpo federale che si occupa di sicurezza americana, visto che Comey al Senato ha testimoniato in pubblico e sotto giuramento; una situazione che significa mettersi in un ambiente con due poli, vero o falso, dove uno dei due mente (con conseguente reato federale, anche se la possibilità di incriminare un presidente è argomento di tomi di diritto).

PRONTO A PARLARE “AL 100%”

Davanti all’evidenza, un reporter ha chiesto al presidente se fosse stato in grado di ripetere quell’affermazione sotto giuramento – la domanda è pertinente, perché un conto è averla detta in una dichiarazione alla stampa, un altro è farlo giurato davanti a una corte – e Trump ha risposto “al 100 per cento”, dicendo che sarebbe stato “felice di dire esattamente quello che ho detto a voi” allo special consuel Robert Mueller che si sta occupando di supervisionare il Russiagate, ossia spostando la sua testimonianza dal floor della Commissione Intelligence, dove ha parlato Comey, a un’aula del dipartimento di Giustizia, che segue attraverso l’Fbi l’inchiesta federale parallela.

LE REGISTRAZIONI

Poi un altro dei giornalisti presenti gli ha chiesto chiarimenti a proposito di un sistema di registrazione segreto installato nella Casa Bianca. Per spiegare la pertinenza della domanda basta ricordarsi di quando (era il 12 maggio, due giorni dopo il licenziamento di Comey), Trump scrisse un tweet piuttosto ambiguo in cui sembrava minacciare l’ex direttore del Bureau dicendo che “sarebbe stato meglio per lui sperare che non ci siano registrazioni” delle loro conversazioni. Trump venerdì non ha risposto, ma ha detto che lo farà a breve e “sarete veramente delusi quando sentirete la mia risposta”.

LA LINEA TRUMP GIÀ IN UN TWEET

Nella mattinata americana di venerdì, dopo che le prime battute alla deposizione di Comey di giovedì avevano preso una via più formale sugli aspetti legali, il presidente aveva rotto il suo silenzio con un tweet (as usual). Il messaggio era una risposta diretta ai suoi elettori, che di certo non si erano accontentati delle dichiarazioni ponderate uscite fino a quel momento per firma dell’avvocato personale del presidente. Trump, che mantiene il polso dello zoccolo duro del suo elettorato, è uscito su Twitter (eliminando l’intermediazione tra istituzioni e gente come fa di solito), e ha accusato il capo dell’Fbi di avere detto bugie e falsità, di aver usato l’audizione al Senato per vendicarsi del licenziamento, e soprattutto di essere un “leaker“, ossia una talpa interna all’Fbi che passava informazioni alla stampa.

AL CENTRO DEL MONDO-TRUMP

Su quest’ultima accusa il presidente si è appoggiato alla dichiarazione stessa di Comey, che ha ammesso di aver passato, tramite un suo amico professore della Columbia, alcuni contenuti di uno dei memo trascritti dopo gli incontri personali con il Prez al New York Times – giornale che il presidente detesta. Comey ha detto di averlo fatto per sensibilizzare il governo a nominare un procuratore speciale per gestire il Russiagate, il presidente dice che ha diffuso informazioni riservate. Trump ha usato l’argomento per evocare quello che lui considera uno dei principali problemi che bloccano la sua azione amministrativa: le tante fughe di notizie, che sono quelle che dovrebbero essere perseguite, sempre secondo il presidente, lasciando perdere la “caccia alle streghe” dell’inchiesta sulla Russia – qui, nella ricostruzione buona per l’elettorato trumpiano, si aggiunge l’alone di mistero sul fatto che quei leak che escono sulla stampa sono uno dei frutti di un complotto del deep state protetto dall’establishment che non vuole alla Casa Bianca uno come Trump che sta sovvertendo il sistema (narrazione, si ricorda).

LA PORTATA DELL’ACCUSA

Una settimana fa Reality Leigh Winner, una contractor esterna dell’Nsa, è stata arrestata per aver passato al sito The Intercept documenti riservati dell’agenzia che dimostravano il tentativo di intromissione russa sui sistemi informatici per il voto americano durante le presidenziali, vicenda che è un altro degli aspetti del Russiagate. Trump con quel tweet ha praticamente messo Comey sotto la stessa accusa che ha portato Winner in carcere.


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