Come nei migliori film di fantascienza, qualcuno ha deciso di risvegliare dall’ipersonno il soldato europeo. Esattamente 65 anni fa, il 27 maggio 1952, veniva firmato il Trattato istitutivo della Comunità Europea di Difesa (CED). La sua mancata ratifica, negli anni successivi, costrinse a ripensare l’integrazione europea partendo dall’economia e dal mercato, piuttosto che dalla politica.
Nei giorni scorsi al Vertice Europeo di Bruxelles, i 28 Capi di Stato e di Governo hanno sottoscritto un impegno per la realizzazione di una cooperazione strutturata permanente nell’ambito della difesa. Un progetto a Trattato costante, quindi, ossia senza la necessità di riformare il Trattato di Lisbona, e i cui contorni sono tutt’altro che chiari.
Qualcuno si affretterà a salutare l’accordo come l’ennesimo successo del processo d’integrazione europea. Qualcun altro sottolineerà l’ennesimo sopruso della UE ai danni della sovranità nazionale.
‘In medio stat virtus’, dicevano i nostri antenati. Il punto tuttavia non è individuare un’interpretazione più equilibrata fra queste due posizioni, entrambe fuorvianti. Il punto è prendere coscienza del rischio di realizzare l’ennesimo passo a metà, d’inserire cioè nella costruzione europea un ulteriore elemento di contradizione che potrebbe portare l’Unione ad implodere, piuttosto che a procedere ancora oltre, verso una democrazia sovranazionale europea.
La politica di sicurezza e difesa, cuore pulsante della sovranità di un popolo, si fa sulla base di una strategia complessiva di politica estera. Ma la politica estera, in Europa, è invece ancora saldamente nelle mani degli Stati-nazione, al di là delle finzioni giuridiche come l’Alto Rappresentante (la bravissima Federica Mogherini, che tuttavia non è dotata di un effettivo potere di scegliere la politica estera per l’Europa).
La politica di sicurezza e difesa non può che essere il frutto di scelte legittimamente e democraticamente assunte con piena responsabilità di fronte ai cittadini, e richiede quindi un’integrazione politica e meccanismi decisionali che ad oggi sono ben lontani anche solo dall’essere evocati.
Senza questi elementi imprescindibili, la cooperazione strutturata permanente rischia di essere solo un accordo di cooperazione intergovernativa, non l’embrione di una vera e propria cessione e condivisione di sovranità. O meglio: una cessione a metà, un modello ambiguo ed inefficace, col rischio che la già debole capacità militare e di sicurezza interna dei 28 a livello nazionale diventi un pastrocchio altrettanto inefficiente ed incapace di agire a livello sovranazionale.
La dichiarazione post-vertice è purtroppo chiarissima sulla natura dell’accordo raggiunto: un “impegno a rafforzare la cooperazione sulla sicurezza esterna e la difesa”. Cooperazione non significa necessariamente integrazione; non significa cessione di sovranità; significa, al massimo, che le sovranità nazionali vengono confrontate su un tavolo comune, ma non ci dice granchè su come quell’eventuale confronto dovrebbe essere sintetizzato in una posizione collettiva europea. Significa solo che i paesi, appunto, “cooperano”, in un quadro di consueta volontarietà che, per la salvaguarda degli interessi nazionali, rischia di bloccare qualsiasi decisione comune. L’unico elemento davvero interessante del documento è l’impegno alla creazione di un apposito fondo UE, di concerto con quelli nazionali, per sostenere il progetto di difesa europea.
Insomma, ci possiamo crogiolare nella retorica del successo, celebrando la futura nuova politica comune (che ancora non c’è e che, come è stato annunciato, ci si augura prenda davvero forma nei prossimi mesi). O possiamo insorgere contro il tentativo di sottrarre l’ennesima competenza agli Stati (che già oggi, però, non sono in grado di esercitarla, come abbiamo visto con le recenti debacle militari sulla sponda sud del Mediterraneo, etc).
Ma sarebbero entrambi atteggiamenti che non colgono l’essenza del problema.
Dobbiamo invece pretendere, ancora una volta, che si esca dai proclami (semi)vuoti e che si dimostri di far davvero sul serio.
I cittadini sono sempre più consapevoli delle potenzialità di politiche comuni, ma anche sempre più insofferenti verso modalità intergovernative, inefficienti ed antidemocratiche di gestione delle scelte e delle competenze collettive.
Se si intende davvero andare verso un esercito europeo responsabile di fronte ad organi rappresentativi della comunità dei cittadini europei (perché questo dovrebbe essere un esercito europeo), verso un Ministro Europeo della Difesa, c’è ancora parecchia strada da fare… e soprattutto occorre spiegarlo con chiarezza e senza ambiguità ai cittadini, oltre che attivarsi per realizzarlo seriamente.
Macron e la Merkel sembrano prendere molto sul serio, ultimamente, gli impegni comuni e la responsabilità storica di far finalmente procedere l’Europa verso un protagonismo che le restituisca dignità sul piano interno ed internazionale. Ma perché ciò accada occorre riscrivere il patto fondativo dell’Unione Europea. Negli anni Cinquanta la morte di Stalin, i problemi politici interni francesi dovuti alle sorti della guerra in Indocina, la questione spinosa del riarmo della Germania riuscirono a bloccare le pressioni Statunitensi a favore della CED. Oggi vi sono altre urgenze e nuove pressioni interne ed esterne, che ci auguriamo convincano a scongelare ed adeguare alle esigenze dell’oggi un progetto già maturo 65 anni fa.
Possiamo solo augurarci che quella indicata nei giorni scorsi non si riveli un’ennesima occasione mancata. Che sia, almeno, l’ennesima contradizione (un esercito senza organi di rappresentanza politica democratica) per portare ancora più avanti il motore dell’integrazione europea.
È il momento di spingere sull’acceleratore per creare una genuina democrazia sovranazionale.