Le Forze Siriane Democratiche, alleate degli Usa nella lotta contro lo Stato islamico in Siria, hanno annunciato ieri di aver dato l’avvio all’offensiva per la riconquista di Raqqa, la capitale del califfato. La formazione, composta prevalentemente da combattenti curdi e da una ridotta rappresentanza di arabi, è sul posto da mesi, posizionata a est, nord ed ovest, in attesa evidentemente di un segnale dal Pentagono che ha già fatto sapere di voler prendere parte alle operazioni.
A Raqqa la situazione si sta lentamente deteriorando. I negozi sono chiusi e la gente non esce di casa. Acqua ed elettricità sono fuori uso. Le panetterie lavorano a metà. Residenti della città hanno dichiarato che negli ultimi tempi si è intensificata la fuga dei civili dalla città assediata, muovendo in direzione sud-ovest seguendo la linea dell’Eufrate e radunandosi nella città di Mayadeen, nella provincia di Deir al-Zour. È qui che probabilmente si consumerà lo scontro finale tra lo Stato islamico e le forze alleate, considerato che nella provincia stanno arrivando truppe da più direzioni, comprese quelle del presidente siriano Assad. Ma se scontrò sarà, si verificherà in un tempo difficile da definire. Come dimostra la parabola di Mosul, la liberazione di Raqqa potrebbe durare mesi. Inoltre, è di queste ore il clamoroso scontro tra paesi del Golfo e Qatar, accusato dai primi di sostenere il terrorismo. Un’accusa che ha trovato una sponda persino in un tweet di Donald Trump.
È evidente che le divisioni tra alleati non potranno che rallentare le operazioni sul terreno. Ma un problema più complesso aleggia sul futuro della Siria liberata dallo Stato islamico: chi governerà le zone liberate dai tagliagole? I villaggi arabi liberati dai curdi in questi mesi sono ora amministrati da dei consigli liberi che però, a detta dei residenti, sono solo dei paraventi per gli interessi dei curdi. La Turchia non nasconde da tempo la propria ira per un probabile uso delle milizie curde nell’offensiva e nella gestione del dopoguerra. Infine, fattore di non second’ordine, c’è da verificare la posizione dell’Iran, altro attore impegnato nelle operazioni anti-Is.
Il timore dell’Occidente è che un Iraq e una Siria mondate dalla presenza jihadista si trasformino in un protettorato sciita, sostenuto dall’alleato di ferro di Mosca. Questo non può che preoccupare gli alleati sunniti dell’area, e può non essere casuale che la diatriba col Qatar sia giunta proprio in questo momento. Il Qatar è stato l’unico Paese a complimentarsi con l’Iran per la rielezione del presidente Rouhani, un atto imbarazzante agli occhi dell’asse sunnita che si considera in guerra permanente con la vicina superpotenza sciita.
La palla resta dunque nel campo degli Stati Uniti, chiamati a trovare una soluzione a questo ginepraio che potrebbe rivelarsi ben peggiore della guerra che attualmente è in corso.