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Vi racconto come operano antimafia e antiterrorismo. Parla il procuratore Roberti

“Negli ultimi trent’anni sono stati fatti enormi progressi nel contrasto alla criminalità organizzata, anche attraverso l’apporto della polizia penitenziaria. Negli anni ’80 contrastavamo la Nuova Camorra Organizzata, nata proprio all’interno delle carceri per volontà di un criminale come Raffaele Cutolo, che tuttora sta passando la sua vita al 41-bis. Allora capimmo che fu il carcere il luogo dove investigare per capire e prevenire”. Sono le parole usate dal Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Franco Roberti durante il convegno organizzato per festeggiare i dieci anni del NIC, il Nucleo Centrale Investigativo della Polizia Penitenziaria, che si è svolto il 27 giugno alla Scuola di formazione “Giovanni Falcone” di Roma.

Il Nic, negli anni di cui parla Roberti, non esisteva ancora. Ma non “c’era nemmeno una polizia penitenziaria coesa e compatta come ora”, ha aggiunto il magistrato. “Abbiamo visto vittime, intimidazioni, corruzioni, concussioni. Sentimmo parlare di incompatibilità dello stato di salute con il regime carcerario, e ci chiedemmo se non fu uno strumento creato apposta per evadere. Questo ci portò ad accertare casi emblematici di assunzione volontaria di farmaci e altre sostanze, con l’aiuto di volontari collusi, e con l’obiettivo di arrivare alla scarcerazione”.

Tema centrale di discussione è il rapporto delle mafie con il terrorismo. Roberti ci tiene a sottolineare che chi sostiene che la mafia sia uno strumento di controllo e di limitazione del terrorismo dice una emerita sciocchezza. “Il terrorismo è un fattore di forza per le mafie, perché polarizza l’attenzione verso di lui. O almeno si pensa che sia così”, ha annotato. “Già negli anni ’80 feci uno studio dove emergeva come la forza del terrorismo nascesse proprio in rapporto alle mafie: pensiamo al sequestro di Ciro Cirillo, all’omicidio del criminologo Alfredo Paolella, dei politici Pino Amato Raffaele Delcogliano o del commissario Antonio Ammaturo. Tutti fatti di terrorismo connessi con il supporto delle mafie. Il Nic è la conclusione di un percorso professionale virtuoso”.

È infatti solo nel 2015, dopo gli attentati alla redazione di Charlie Hebdo, che vengono assegnate all’antimafia anche le funzioni di antiterrorismo. “Il comportamento dei detenuti a rischio di recidiva rientra nello stesso meccanismo del rischio di radicalizzazione. Ciò porta risultati importanti in termini di raccolta dati e informazioni, che sono il core business dell’antimafia. E io continuerò a insistere sull’idea che la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo può dare grande aiuto al Casa: l’interlocuzione, per me, deve essere sistematica”.

Poi c’è il tema della rete, e “investigare su di essa è fondamentale”, perché è lì che si sono avviati quasi tutti i percorsi di radicalizzazione. “L’idea geniale dello Stato Islamico è stata aprire le porte a tutti gli emarginati del mondo che cercano di dare un senso alla propria esistenza”. Soggetti oggi ad altissimo rischio: “Parliamo di radicali islamizzati, che partono da un percorso di radicalità e cercano nell’islam una legittimazione della propria rabbia. Questa sostanziale identità operativa ha fatto sì che ci venisse attribuita questa competenza”.

Ed è toccato anche al procuratore Roberti spiegare quali sono i fattori che finora hanno portato l’Italia a non subire attentati. “Completezza delle conoscenze”e “grande attività di prevenzione”, oltre a “conoscenza del fenomeno e dei soggetti a rischio”, è stata la sua analisi. “Il fatto poi che il procuratore nazionale antimafia possa richiedere misure di prevenzione anche per soggetti soltanto a rischio ma che commettono atti rilevanti. Intendiamo andare avanti anche per quelli scarcerati”.

A inizio convegno il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri ha portato i saluti del ministro Andrea Orlando: “Nonostante la crescente importanza del lavoro della polizia penitenziaria” e le “urgenze, le difficoltà, le tensioni”, ha scritto Orlando, “le condizioni stanno migliorando”, e “l’idea di custodia statica sta lasciando spazio a un controllo più dinamico”. Vale a dire a un sistema di sorveglianza in cui la polizia penitenziaria partecipa ad “attività di osservazione e di trattamento”, per “conoscere i detenuti e mettere in campo strumenti per garantirne il recupero”, nella “sicurezza necessaria”. Collaborando così “al reinserimento del condannato” anche “all’esterno del carcere”.

I fenomeni di terrorismo interni però, ha continuato Orlando nella sua lettera, “sono diffusi e violenti: in anni difficili il crimine organizzato ha alzato il tiro ”, e oggi “dobbiamo affrontare le sfide del terrorismo internazionale con lo stesso spirito. Il rischio di proselitismo e di radicalizzazione è particolarmente elevato nelle nostre carceri, al pari di altri paesi”, ma “controllare e prevenire determinerà il livello di esposizione”.

Tenere cioè d’occhio il clima all’interno delle carceri, possibile terreno fertile per lo sviluppo di estremismi, lavorando sul “sostegno”, sulla “tutela dei diritti fondamentali della persona” e sull’uso di “energie per il recupero e il reinserimento del condannato”. Che vuol dire “inserire nel sistema antidoti capaci di prevenire la radicalizzazione violenta”. Ad esempio, ha concluso Orlando, “il diritto al libero esercizio del culto provoca conseguenze rilevanti nel favorire o no la visione degli Occidentali come nemici dell’islam”



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