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Banche centrali, saggia flemma o pericolosa prudenza?

I mercati finanziari sono disorientati, tra le politiche di bilancio ancora molto incerte negli Usa e le banche centrali che non riescono a riportare alla normalità le politiche monetarie: l’inflazione è ancora troppo bassa su entrambe le sponde dell’Atlantico, ed i rendimenti dei titoli di Stato a 10 anni molto lontani dalla normalità.

Mentre la Fed rinvia di continuo il rialzo dei tassi, la Bce non si pronuncia sulla riduzione del Qe, che pure in molti si attendono, senza escludere addirittura un rafforzamento di questa misura se dovesse essere necessario. È un oracolo che non vuole sbilanciarsi: lascia all’interprete l’onere di decifrare la risposta, facendo aumentare la confusione. Altro che attese razionali.

In questo contesto, ad orientare gli operatori sono i timori colti nel panorama politico, che si sono già riflessi sul cambio tra euro e dollaro: si è portato a quota 1,16 rispetto alla quota di 1,06 a cui si era stabilizzato sin dall’inverno 2014.

Il rafforzamento dell’euro riflette il timore che l’Amministrazione Trump non riesca mantenere le promesse della campagna elettorale, tagliando le tasse ed aumentando gli investimenti pubblici: queste prospettive giustificavano una più elevata crescita economica e conseguentemente anche tassi di interesse più alti.

Anche sul versante europeo c’è una prospettiva politica che sembra contribuire alle incertezze della Bce ed al rafforzamento dell’euro già in atto: a settembre, la Cancelliera tedesca Angela Merkel verrebbe rieletta per un quarto mandato. Ne conseguirebbe una rapida cessazione del Qe: una politica monetaria meno accomodante restituirebbe rendimenti positivi ai risparmiatori tedeschi e ridurrebbe il vantaggio competitivo dell’export tedesco e quindi lo squilibrio commerciale di cui ci si duole negli Usa.

Le asimmetrie all’interno dell’Europa tornerebbero però ad accentuarsi, con conseguenze negative anche per la crescita dell’Italia: la previsione di un +1% annuo, contenuta nel Def 2017 fino al 2020, si fonda su una consistente domanda mondiale e su un cambio nominale euro/dollaro stabile ad 1,060. Nel medesimo documento, affrontando lo scenario dei rischi/sensibilità alle variabili esogene, si precisa che nel caso in cui le previsioni si fondino sui cambi previsti tra il dollaro e le principali valute utilizzando la cosiddetta “parità coperta dei tassi di interesse” anziché quella nominale, i mercati finanziari sconterebbero un apprezzamento dell’euro e una variazione del tasso di cambio nominale effettivo complessiva del 5,7 per cento nel triennio 2018-2020. In questo caso, la crescita del PIL ne risentirebbe per un ammontare anche superiore a cinque decimi di punto. Sono solo ipotesi, sottolinea il Def in proposito, in quanto l’apprezzamento dell’euro scontato da questa metodologia avverrebbe verso quasi tutte le valute e produrrebbe una variazione crescente nel tempo. Quasi a smentire la pericolosità di questa prospettiva, si afferma che un tale comportamento si verifica estremamente di rado, e che questa metodologia non fornisce normalmente risultati apprezzabili i termini di performance previsiva.

Si attenuerebbero, invece, le asimmetrie fra l’Europa nel suo complesso ed il resto del mondo. Nel 2016, infatti, l’attivo delle partite correnti dell’Eurozona è stato di 373 miliardi di euro, rispetto ai 218 miliardi del 2013, con un aumento di oltre il 70% in tre anni, dovuto quasi esclusivamente alla svalutazione dell’euro indotta già dall’annuncio del QE, passando da un rapporto di 1,40 ad uno di 1,06. Non c’è dubbio che in questi ultimi anni siamo stati di fronte ad un cambio dell’euro troppo debole, e non solo nei confronti del dollaro. L’Eurozona ha esportato deflazione, recessione e disoccupazione, con la Germania in testa.

La Bce ha dovuto porre rimedio alla sua stessa intempestiva Exit strategy dalla politica monetaria accomodante, iniziata a marzo del 2011 e proseguita nel luglio successivo con due aumenti dello 0,25% del tasso di riferimento, ed alla decisione di sospendere sempre da marzo il programma SMP, volto all’acquisto dei titoli di Stato ed alla contestuale sterilizzazione della liquidità così immessa. Furono decisione profondamente sbagliate, perché sottovalutarono l’incrudelirsi della crisi greca, l’allargarsi degli spread sul debito pubblico italiano ed il deflagrare della crisi portoghese.

In modo più cauto, ma altrettanto incerto, le Banche centrali degli Stati Uniti e della Unione europea stanno nuovamente affrontando la fine delle politiche monetarie accomodanti. Si trincerano dietro il tasso di inflazione che ancora è lontano dall’obiettivo del 2% annuo, richiamandosi al mandato statutario, mentre i mercati guardano alla crescita economica, alla disoccupazione, agli squilibri delle bilance commerciali. Nessuno di questi problemi è stato risolto, anzi.

Per questo c’è sbandamento ed incertezza, perché di una cosa sono tutti certi: mentre a mala pena si è rimediato con enormi sforzi agli errori commessi, già cova il rischio di nuove crisi.


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