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Che cosa si dice davvero in Cina di Suning e Inter

Si è trattato di una frase interpretata fuori contesto. Yin Zhongli, ricercatore ed esperto di finanza all’Accademia cinese per le scienze sociali, ha precisato sul suo blog il significato esatto delle dichiarazioni che hanno innescato le polemiche sugli investimenti del colosso dell’elettronica Suning nell’Inter.

Martedì sera, ospite della trasmissione News 1+1 sulla Cctv si era lasciato andare ad un’analisi interpretata da più parti come un’accusa di sospetto riciclaggio rivolta nei confronti del gruppo presieduto da Zhang Jindong. In realtà la frase incriminata rientrava in un più ampio discorso sulla razionalità finanziaria di alcune operazioni compiute all’estero dalle società cinesi.

“Stavo commentando il fenomeno degli investimenti cinesi all’estero, mi riferivo al fenomeno generico e a nessuna azienda in particolare, riferirlo a Suning significa esulare quanto ho detto dal contesto e se si faranno speculazioni su quanto ho sostenuto, adirò alle vie legali”, ha scritto Yin.

Ed effettivamente a tirare per primo in ballo il gruppo di Nanchino e l’acquisto per 270 milioni di euro del controllo del club nerazzurro, avvenuto a giugno dello scorso anno, è stato il conduttore del programma. La domanda che il giornalista si è posto è come mai una società come Suning avrebbe dovuto acquistare un club che in cinque anni era sempre andato in perdita per un totale di oltre 279 milioni di euro.

I dubbi ricalcano le osservazioni fatte lo scorso marzo da Pan Gongsheng, direttore della Safe, il braccio della People’s bank of China che gestisce le riserve estere del Dragone. All’epoca erano da pochi mesi in vigore le restrizioni alla fuoriuscita di capitali imposte a dicembre che, salvo proroghe, termineranno il prossimo 30 settembre. Per l’alto funzionario gli investimenti nel pallone dovevano essere ponderati con accuratezza. Andavano bene nel caso portassero valore aggiunto allo sviluppo dello sport nel Paese, in linea con le ambizioni del governo di fare della Cina una potenza calcistica. Di contro, potevano sorgere problemi nell’eventualità si fosse trattato di investimenti condotti da società già pesantemente indebitate e per giunta con ritorni incerti.

L’enfasi sul pallone ha infatti spinto numerosi gruppi a buttarsi nel business. La China Super League ha spesso cifre folli per strappare campioni ai campionati europei, spingendo il governo a porre un tetto a trasferimenti e salari, nonché ai giocatori stranieri da schierare. Anche il mercato dei diritti televisivi si è surriscaldato. Per la Serie A cinese i gruppi locali hanno speso di più di quanto abbiano fatto per la Premier League cinese.

“Alcune aziende sono già altamente indebitate a casa, eppure hanno speso abbondantemente all’estero grazie a prestiti bancari”, ha commentato Yin facendo un discorso più ampio. “Penso che molte acquisizioni all’estero abbiano una bassa opportunità di generare liquidità e non posso escludere la possibilità di riciclaggio di soldi”.

Sono bastate queste parole per mandare in rosso il titolo Suning, che mercoledì ha lasciato a fine seduta il 2,7% (dopo aver perso fino al 6,5%) e ancora giovedì 20 luglio stentava in borsa a Shenzhen.

Il gruppo di Nanchino è intervenuto con una nota affidata al vicepresidente Sun Weimin, mentre il patron Zhang era preso dai colloqui del Dialogo economico sino-statunitense che tentano di trovare un terreno comune tra Pechino e Washington sul piano commerciale. Suning ha chiarito di attenersi alla strategia cinese sugli investimenti esteri, di puntare alla promozione del mercato interno e ha descritto l’acquisizione dell’Inter come un viatico per portare esperienze e professionalità utili alla crescita del calcio cinese, settore sul quale peraltro aveva già investito prendendo il controllo del Jiangsu, team della prima serie, a dicembre del 2015.

Resta tuttavia un dato che ha a che fare con la politica. Il colosso con buone connessioni all’interno del Partito comunista è finito nel grande calderone degli investimenti irrazionali, nuovo grattacapo della dirigenza cinese, quando mancano pochi mesi all’apertura in autunno del congresso del Pcc. Per di più dalla tribuna della televisione di Stato, in una trasmissione andata in onda dopo il tg delle 19, quello di punta.

Nel corso della trasmissione, a dirla tutta, è stato citato anche il passaggio del Milan dalla Fininvest alla cordata guidata dal finanziere Li Yonghong. Le due operazioni avevano però preso fin da subito strade diverse. Sul versante nerazzurro un gruppo solido e chiaro (che comunque si è mosso a sua volta con una catena societaria che dalla Cina arriva al Lussemburgo passando per Hong Kong). Su quello rossonero una compagine rimasta a lungo opaca, costituita da imprenditori non troppo conosciuti che, una volta imposte le restrizioni alla fuoriuscita di capitali si è mossa attraverso società offshore e ricorrendo a un prestito da 300 milioni del fondo attivista Elliot, dando quasi l’impressione di voler forzare la mano, proprio mentre le autorità di vigilanza chiedevano prudenza negli investimenti nel settore immobiliare, nello sport e nell’intrattenimento.

La stoccata si inserisce in una più ampia offensiva verso i grandi gruppi, quasi a mettere chiunque sul chi va là. A fine giugno la commissione di regolamentazione del settore bancario ha chiesto verifiche sull’esposizione degli istituti verso alcuni dei protagonisti dell’espansione cinese fuori dai confini della Repubblica popolare. Sotto la lente sono finiti Dalian Wanda, del magnate Wang Jianlin, che assieme a Jack Ma si gioca lo scettro di uomo più ricco di Cina; Fosun, conglomerata del Warren Buffett cinese, al secolo Guo Guangchang; la holding Hna, primo azionista di Deutsche Bank, l’assicurazione Anbang.

Di questi giorni è infine la notizia dell’ordine dato alle banche di congelare i finanziamenti per le acquisizioni di Wanda, impegnata intanto a cedere i propri parchi a tema e parte degli asset alberghieri per ripianare i debiti.

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