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Perché Trump e Ross picchiano con l’acciaio sulla Cina

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Non c’è stato nessun comunicato né una dichiarazione congiunta a chiudere il tanto atteso Comprehensive Economic Dialogue fra ufficiali cinesi e americani a Washington mercoledì 19 luglio. Né l’ambasciata cinese nella capitale a stelle e strisce, né tantomeno il portavoce della delegazione americana hanno voluto dare spiegazioni dell’anomalia. Un silenzio forse dovuto alle bordate tirate ai cinesi dal segretario americano per il Commercio Wilbur Ross nel suo discorso sul dumping commerciale, le asimmetrie negli investimenti tutte a danno degli americani, i sussidi statali per l’export dell’acciaio che facilitano la concorrenza sleale e sottraggono posti di lavoro negli Stati Uniti.

“La Cina è il nostro terzo partner nell’export e negli ultimi 15 anni l’export americano in Cina è cresciuto di circa il 14% all’anno”,è l’analisi di Ross, nominato da Trump a febbraio a capo del dipartimento del Commercio dopo una lunghissima e fortunata carriera da banchiere. “L’export dei servizi è cresciuto perfino più velocemente con un tasso del 18% all’anno. Ma questa non è neanche vicina all’intera storia: nello stesso periodo l’export cinese verso gli US è cresciuto del 268% e il disequilibrio nel commercio è cresciuto del 205%, da 101 miliardi a 309 miliardi”. Poi le accuse agli interventi dello Stato cinese sul mercato a danno della concorrenza: “La Cina è responsabile del 50% del deficit degli US nel commercio dei beni. Se questo fosse semplicemente il prodotto delle forze del libero mercato, potremmo capirlo, ma non è così. È il momento di riequilibrare le nostre relazioni nel commercio e negli investimenti, in un modo più giusto, equo e reciproco”.

Parole pronunciate davanti agli occhi attoniti del vice premier cinese Wang Yang, che solo il giorno precedente a Washington aveva tenuto un discorso dai toni distensivi in presenza, tra gli altri, del segretario del Tesoro Steve Mnuchin e dello stesso Ross. “La cooperazione è l’unica possibilità fra i nostri paesi” aveva chiosato Yang in quell’occasione, dichiarando ai presenti di “capire che abbiate ancora dei dubbi su alcuni temi”, ma garantendo che il Governo cinese è al lavoro per “permettere un più ampio accesso al mercato e una maggiore apertura del settore dei servizi”. La brusca virata di toni di Ross sembrerebbe aver interrotto una sintonia fra le due cancellerie che era andata rafforzandosi a partire dall’incontro di aprile fra Trump e Xi Jinping, quando avevano gustato insieme una torta al cioccolato in Florida nella residenza di Mar-a- Lago.

Non c’erano grandi aspettative sull’incontro di mercoledì da parte degli esperti: riunioni bilaterali dallo stesso format esistono con nomi diversi già dal 2006, e quasi sempre la presenza di troppi invitati ha compromesso la capacità di trovare soluzioni concrete. “Penso che quel che vedremo sarà il tentativo da entrambe le parti di dichiarare vittoria affrontando poche aree specifiche dove la Cina accetta di aprire i suoi mercati” aveva confidato scettico a Reuters Eswar Prasad, in precedenza a capo della divisione cinese all’FMI. Eppure l’ultimo summit di Washington è giunto in un momento estremamente delicato nelle relazioni commerciali fra Cina e Stati Uniti, alla scadenza del “Piano dei 100 giorni” concordato a Mar-a-Lago dai due presidenti: poco più di tre mesi per mettere nero su bianco un piano che riduca il deficit statunitense nel commercio di beni con i cinesi, un buco di 347 miliardi di dollari, che nel 2017 è cresciuto del 5,3%.

Quell’accordo non aveva tardato a mostrare i primi frutti. Non solo a vantaggio di una distensione fra le parti, con Trump che è passato dai tweet al veleno contro i cinesi in campagna elettorale, a definire, una settimana fa nella sua visita ufficiale a Parigi, il premier Xi Jinping “un uomo straordinario”, “un grande leader”, “una persona veramente speciale”. Una sfilza di elogi che aveva peraltro fatto infuriare migliaia di attivisti cinesi per i diritti umani, perché pronunciate a poche ore dalla morte del premio Nobel per la Pace e prigioniero politico Liu Xhiaobo.

A maggio i primi risultati concreti, con l’accordo bilaterale per far tornare dopo 14 anni di divieto il manzo statunitense sulle tavole cinesi e per fare entrare il tanto criticato (per l’indadempienza agli standard di igiene) pollame del dragone nelle case americane. Un accordo rivendicato con orgoglio dal segretario per l’Agricoltura Sonny Perdue, che ha fatto felici soprattutto gli allevatori del Nebraska. Questo lunedì, durante un evento alla Casa Bianca, Trump tornando sull’argomento ha raccontato l’entusiasmo di un membro dell’esecutivo di quello Stato: “mi ha abbracciato, voleva baciarmi ad ogni costo”. Ma il commercio delle bistecche costituisce solo una faccia della medaglia in quell’accordo. L’altra prevedeva l’impegno dei cinesi ad acquistare dagli States il gas liquido naturale e permettere alle loro compagnie di carte di credito di operare in Cina.

Promesse, queste, che difficilmente saranno mantenute con l’irrigidimento dei rapporti. Sia Trump che Xi Jinping si ritrovano oggi a dover alzare i toni in politica estera per sopperire, davanti agli occhi del loro elettorato, alle mancanze di politica interna. L’amministrazione americana, in difficoltà sul Russiagate, bloccata nello smantellamento dell’Obamacare, si prepara a varare nuove misure contro il dumping asiatico sull’export dell’acciaio. A breve è prevista la pubblicazione di un rapporto sulla “Sezione 232” del “Trade Expansion Act”, una legge del 1962 che permette l’imposizione di tariffe sulle importazioni se la sicurezza nazionale è a rischio.

Dal canto suo il presidente cinese Xi Jinping deve affrontare il prossimo autunno il 19° congresso del Partito Comunista Cinese (PCC), un evento di enorme portata, con cadenza quinquennale, dove dovrà difendere la sua leadership anche dalle critiche sulle aperture al commercio con gli americani. In mezzo alle ruote degli scambi bilaterali fra le due sponde del pacifico, resta il bastone della discordia sulla Corea del Nord. “Dobbiamo dargli un’opportunita” aveva twittato qualche mese fa il Tycoon riferendosi all’impegno cinese per contenere Pyongyang.

I mesi passano, eppure migliaia di aziende del dragone continuano a fare affari con Kim Jong-un. Il Ministero del tesoro americano ha già annunciato sanzioni contro due cittadini e una compagnia di spedizione cinesi. Si tratterebbe solo della punta dell’iceberg: a inizio luglio due fonti dell’amministrazione americana hanno rivelato a Reuters che “il presidente sta perdendo la pazienza con la Cina” e che alla Casa Bianca si lavora su un nuovo pacchetto di sanzioni contro più di dieci aziende del dragone.


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