Per essere sicuri che la confessione non serva a niente si devono applicare le seguenti regole (anche non tutte, ne bastano alcune):
1. Confessare i peccati degli altri invece che i propri (e confidare al confessore tutte le malefatte della nuora, dell’inquilino del piano di sopra e i difetti insopportabili del parroco, dopo aver accertato che il confessore non sia il parroco).
2. Esporre un elenco analitico e circostanziato dei propri peccati, con la preoccupazione di dire tutto e tirare un sospiro di sollievo quando l’elenco è finito: ci sono di quelli che salutano considerando tutto finito. L’assoluzione è ricevuta come una specie di saluto e di augurio.
3. Confessarsi per giustificarsi: in fondo non ho fatto niente di male. Il pentimento è un sentimento dimenticato.
4. Confessare tutto, eccetto i peccati più gravi (“perché se no non mi assolve”).
5. Presentarsi al confessore con la dichiarazione: “Io non ho niente da confessare”.
6. Confessarsi perché “me l’ha detto la mamma (o il papà o la moglie o la zia…)”.
7. Parlare con il confessore per mezz’ora del più e del meno e concludere: “La ringrazio che mi ha ascoltato! Le auguro buona Pasqua, a Lei e alla Sua mamma”.
8. Approfittare per confessarsi della presenza di un confessore (“Non avevo neanche in mente di confessarmi, ma ho visto che era libero…”).
9. Confessarsi perché è giusto confessarsi ogni tanto.
10. Confessarsi per evitare che il confessore sia venuto per niente.
(Testo estratto da un articolo pubblicato dall’inserto domenicale di Avvenire Milano Sette e consultabile anche a questo link)