La sentenza su …Capitale (urge nuova definizione) sembra che non abbia insegnato nulla ai giornalisti e ai pm che vedono la Spectre mafiosa all’opera anche in Val Pusteria. Un tempo c’era il “fattore K” (copyright Alberto Ronchey), che consentì all’Italia democristiana e comunista di restare per mezzo secolo un’enclave partitocratica inviolabile. Dopo la fulminante parabola referendaria di Mario Segni, siamo passati dall’Italia dei partiti a quella di Silvio Berlusconi. È allora che emerge il “fattore M” (copyright Mauro Calise), ovvero quell’intreccio tra media e magistratura che viene considerato da una sinistra sempre più disorientata come l’unico argine residuo alla travolgente avanzata del Cavaliere. Una miopia culturale e ideologica di cui ancora oggi paghiamo lo scotto. Prima Monti, poi Letta, quindi lo stesso Renzi hanno dovuto subire il ruolo preponderante del terzo e del quarto potere, fino all’aperta invasione di campo dei giudici (inclusi talvolta quelli della Consulta) sia in partite cruciali per le sorti dell’economia nazionale sia nelle scadenze elettorali. In proposito, basti pensare all’invenzione di fantasiosi profili di colpevolezza sub-giudiziari come la categoria degli “impresentabili”. Per non parlare delle inchieste più recenti, che da ultimo hanno creato più di un grattacapo alla maggioranza parlamentare facendo leva sulle malefatte di qualche faccendiere nei corridoi ministeriali.
Purtroppo, dopo una flebile polemica contro il giustizialismo lanciata all’epoca dello “scandalo del petrolio” in Basilicata (di cui peraltro non si ha più notizia), e nonostante le patacche maleodoranti del caso Consip, il Pd a trazione renziana sembra aver scelto la via, se non del silenzio, della protesta all’acqua di rose. A mio avviso, si tratta di un errore gravissimo. Perché la crescente giuridificazione della politica e, per converso, la crescente politicizzazione dell’azione giudiziaria hanno concorso in misura non trascurabile ad appannare il riformismo del governo. Infatti, dovrebbe essere ormai chiaro anche ai fan più accaniti del segreatario fiorentino che la missione dichiarata del fattore M è quella di azzoppare la “democrazia del leader” (del resto, il Renzi postreferendario sta facendo di tutto per dargli una mano). Per questo, c’è da scommettere che da qui alle prossime elezioni non lo vedremo andare in ferie.
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Folla e massa sono due parole affini, come indica la loro etimologia. Folla deriva dal verbo latino fullare: pigiare l’uva, la lana, un tessuto. Massa viene dall’identico termine latino, che significa “pasta”, analogo al greco maza, nome di una focaccia d’orzo con olio e acqua che origina dal verbo massein (impastare). Folla e massa, come metafora di una materia amorfa da plasmare, indicano le moltitudini umane coinvolte nella politica, evocando nello stesso tempo “l’azione esercitata su di esse dai capi che le guidano” (Emilio Gentile, Il capo e la folla, Laterza, 2016). Folla e massa sono parole entrate nel linguaggio politico con la Rivoluzione americana e la Rivoluzione francese. Nel 1895 il sociologo francese Gustave Le Bon annunciava che l’era delle folle era iniziata. Trentacinque anni dopo, il filosofo spagnolo Ortega y Gasset constatava l’avvento delle masse al pieno potere sociale.
Oggi le due parole sono cadute in disuso. Le élite occidentali (comprese quelle di casa nostra) preferiscono parlare di popolo, mentre i populismi americani ed europei (compresi quelli di casa nostra) amano coccolare e appellarsi al popolo. In realtà, l’impressione è che ambedue continuino a concepirlo e a trattarlo come un coacervo di folle o masse indifferenziate, da “educare” o da “manovrare” per i propri disegni politici (non per caso, del resto, il popolo solitamente viene identificato con il termine “gente”).