Come tutti, vivo sempre con angoscia gli anniversari degli assassinii di Giovanni Falcone prima, e, cinquantasette giorni dopo, di Paolo Borsellino, insieme ai rispettivi uomini di scorta.
Angoscia doppia, a onor del vero. Una prima volta, per l’atrocità di quegli attentati. E una seconda volta, anno dopo anno, per il rito delle commemorazioni ufficiali e ufficiose, con “celebranti” spesso meno preoccupati di onorare i morti, e più interessati a promuovere alcuni vivi e ad additarne altri al pubblico ludibrio.
Non sono più giovanissimo, non sono ancora anziano, ma sono sufficientemente vecchio per ricordare personalità che dicevano di Falcone cose atroci (in vita), salvo poi ergersi – post mortem – ad amici, esegeti, e pubblici ministeri delle altrui azioni e omissioni, vere o presunte.
A mente fredda, e senza entrare nel ginepraio delle lacunose e contraddittorie vicende processuali, si contrappongono due “narrazioni”.
Da un lato, quelli (magistrati militanti, giornalismo giustizialista, ecc.) che insistono – senza alcun velo di dubbio, senza sfumature, senza nuance – sul ruolo degli apparati dello Stato. Costoro sono certi, in particolare per l’omicidio di Borsellino, di un concorso di segmenti istituzionali: di qui la sottrazione della famosa agenda rossa di Borsellino, elevata da alcuni a “scatola nera”, a codice interpretativo di decenni di malefatte italiane. E soprattutto la certezza assoluta, granitica, indiscutibile, di un’indecente trattativa tra Stato e mafia. Il pendant logico di questa impostazione è la criminalizzazione di alcune figure (in primis, Bruno Contrada), punto essenziale (e direi quasi topos letterario) di fiction televisive, ricostruzioni giornalistiche, e così via.
Dall’altro lato, c’è un fronte più tradizionalmente garantista che si concentra – e di per sé la cosa è correttissima, non solo corretta – sulle responsabilità della mafia, dei criminali, non di altri. E per altro verso (qui, con ragione ancora maggiore!) sull’inadeguatezza professionale di molti magistrati abili a pontificare, ma che si sono fatti raccontare un sacco di balle da pentiti inattendibili e falsi dichiaranti. Pur sentendomi per evidenti ragioni più vicino a questa impostazione, specie quando difende figure oggetto da anni di una vera e propria lapidazione mediatica (Contrada in primis), mi colpisce negativamente – però – la tendenza a banalizzare le lentezze e le contraddizioni istituzionali nei mesi e negli anni successivi agli attentati, e la negazione aprioristica di qualunque possibile ruolo di settori deviati degli apparati pubblici.
Se nel primo caso la “superstizione” sta nel dare per acquisito questo fatto (avendo già pronti i “mostri” da impiccare), nel secondo caso la “superstizione” è di segno opposto, negando, smorzando, annullando, in qualche caso irridendo la possibilità stessa che ciò sia invece accaduto.
Ecco, senza cerchiobottismi, e senza “maanchismi”, forse è venuto il momento di valutare freddamente una terza ipotesi, una terza impostazione (non “furba”, non equidistante, non di comodo), basata non “sull’o…o” (o è vero questo o è vero quello), ma “sull’e…e”.
Intendo dire che l’incapacità acclarata dei magistrati che si sono fatti raccontare balle dai pentiti non esclude che vi sia stata anche una “vischiosità” di pezzi delle istituzioni. Ovvio che i magistrati incapaci e la loro grancassa mediatica abbiano avuto tutto l’interesse a creare cortine fumogene, ad alimentare teorie complottistiche. E questa operazione va denunciata con forza. Ma ciò non toglie che – pur senza quelle lenti deformanti – anche il comportamento di segmenti istituzionali vada valutato e scrutinato. Naturalmente, occorre farlo non con gli “attrezzi” del sospetto, del lancio di fango, delle campagne di aggressione senza prove, ma – a questo punto – con il passo e il respiro dell’analisi storica, della comprensione dei fatti, della ricostruzione complessiva.
Conquisteremo la freddezza non faziosa, non fanatica, non accecata, per un dibattito di questo tipo? La grandezza di Falcone e Borsellino lo meriterebbe.