La preoccupazione (come ben testimoniato dagli editoriali domenicali su Repubblica e sul Gazzettino, rispettivamente di Eugenio Scalfari e Romano Prodi) che sta prendendo rapidamente il posto dell’entusiasmo che la vittoria di Macron aveva suscitato in vasti ambienti del Vecchio continente, sino a rappresentarlo come una minaccia per l’Europa e per l’Italia, offre lo spunto per alcune brevi considerazioni, in particolare muovendo dalla vicenda dell’acquisto da parte “italiana” (Fincantieri, con forte radicamento nell’area giuliana, piu Fondazione CR Trieste) dei cantieri navali francesi Stx.
Al riguardo, i fatti sono noti: il neoeletto presidente Macron, a cessione da poco conclusa, prende posizione pubblicamente (a Saint-Nazaire, in occasione della cerimonia di consegna di una nuova mega nave da crociera) sostenendo che gli accordi vanno rivisti. Sostiene, in sintesi, sia necessaria una «nuova struttura azionaria» che – diversamente da quella appena poco prima definita con l’avallo di Hollande – consenta di consolidare e garantire commesse industriali, posti di lavoro, ma anche l’indipendenza e la sovranità strategica della Francia.
La prima considerazione, al riguardo, è per questa idea di “sovranità strategica” che la Francia mostra di avere ben chiara (perfino troppo) e che invece in Italia occupa lo spazio della discussione pubblica a corrente (molto) alternata e, in genere, nelle riflessioni – pensose, quando non malinconiche e rassegnate, comunque mai risolute – che seguono la conquista straniera di una “preda” italiana o il fallimento (per altrui resistenze all’insegna di un dichiarato sovranismo economico) della conquista italiana di una società straniera. Qualcosa, tutto questo, è forse ora che inizi ad insegnarci.
In secondo luogo, Macron – nel non avere esitazioni ad anteporre l’interesse nazionale della Francia all’elementare principio di civiltà giuridica “pacta sunt servanda” – punta l’indice non tanto sulla partecipazione in Stx di Fincantieri, quanto sulla piccola quota della Fondazione CR Trieste, accusata di fare, nell’operazione, da “prestanome”. A parte ogni altra considerazione, anche di stile, non sfugge che se dovesse passare, stavolta, il principio che le quote in carico alle fondazioni bancarie sono da considerare alla stregua di quelle di un “prestanome”, non ci sarebbe da meravigliarsi troppo se, una prossima volta, taluno usasse analogo argomento per le quote da esse detenute in altre importanti aziende di area pubblica (ad iniziare, ovviamente, da Cdp).
In terzo luogo, tutta questa vicenda fa tornare alla mente la norma in tema di golden power e quella anti-scorrerie, che dopo la messa a punto da parte degli uffici del ministro Calenda dovevano vedere la luce con l’approvazione del ddl sulla concorrenza, e di cui invece non si sente neppure più parlare.
Norme di questo tipo le ha, ad esempio, proprio la Francia, e dotarsene potrebbe servire quanto meno a mandare agli altri Paesi il messaggio che l’Italia la reciprocità è disposta a (iniziare a) praticarla, non solo a predicarla (poco e male). Non sembra il caso di indugiare ancora, anche in proposito.