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Ecco come i bancari della Cgil stroncano Renzi sul lavoro

Che tra la Cgil e il Pd non corresse buon sangue è cosa nota. Se però in mezzo finiscono i numeri, magari impietosi, allora il sapore è quello di un vero e proprio attacco. In settimana la Fisac-Cgil, il sindacato dei bancari e degli assicuratori, ha pubblicato un’analisi (qui il documento) che fa le somme e le sottrazione di circa un decennio di politica economica italiana. Senza rinunciare a fare delle previsioni, piuttosto precise, sul mercato del lavoro. Partendo da un presupposto: il jobs act non è servito a nulla.

C’ERA UNA VOLTA IL BANCARIO

Partendo dal dna della Fisac-Cgil, il primo faro è stato acceso sulle banche, in particolare sull’emorragia di posti di lavoro che ha interessato (e interesserà) il settore. Dal 2007 al 2023, dunque in un arco temporale di sedici anni, il credito ha perso e perderà circa 67 mila addetti (su un totale di 300 mila unità a livello nazionale) tra esuberi e uscite volontarie. Queste ultime sono previste nell’ordine di 17 mila, rimpiazzate però da altrettanti giovani leve da inserire per mezzo del Foc, il Fondo per l’occupazione nel credito. Dunque a conti fatti si tratta di un saldo negativo di 50 mila unità. Tra le quali vanno inseriti i 4 mila esuberi appena concordati tra Intesa Sanpaolo e i sindacati delle due banche venete appena acquisite da Torino e i 5.500 esuberi frutto della nazionalizzazione di Mps.

IL JOBS ACT DI RENZI HA FALLITO

Ma il vero atto d’accusa riguarda il jobs act, la creatura renziana per definizione concepita per aggiornare il mondo del lavoro ai canoni del Terzo Millennio. Una riforma che il sindacato dei bancari iscritti alla Cgil non esita a definire “un buco nell’acqua”. La Fisac Cgil punta il dito contro la progressiva precarizzazione del lavoro innescata dal jobs act. E’ vero che in contratti sono aumentati ma solo quelli a termini. Quelli a tempo indeterminato, nel periodo gennaio-aprile 2017, sono crollati del 34,7% mentre a quelli a termine sono saliti del 26%. Nulla in confronto a quelli di apprendistato, schizzati del 40%. “Nel 2017 circa il 67% è assunto con contratti a termine, sono stati spesi 20 mld finiti i quali si è tornati alle assunzioni a tempo determinato”, sintetizza il rapporto.

TRA POVERTA’ E RICCHEZZA

Altro capitolo, riguarda la povertà e la ricchezza del Paese. Partendo dalla prima, nel biennio renziano (tra il 2015 e il 2016) le persone in condizione di povertà assoluta sono passate da 4,5 a 4,7 milioni, mentre quelle in povertà relativa, da 8,3 a 8,4 milioni. E non va meglio tra chi si dichiara in arretrato su bollette e mutui. Da 9 a 12 milioni di famiglie per la prima voce e da 3,9 a 5,4 milioni per la seconda. Ma non finisce qui. Molto c’è da dire anche sulla distribuzione del reddito e sui compensi ai top manager. Prima però va ricordato un dato: in Italia il 20% dei nuclei detiene il 70% della ricchezza nazionale.

TANTO NELLE MANI DI POCHI (MANAGER)

Ancora, i bancari della Cgil pongono l’attenzione sulle retribuzioni dei top manager. Sottolineando come lo scorso anno un centinaio di top manager ha guadagnato la bellezza di 352 milioni lordi, con molti di essi che hanno sforato i 3 milioni a testa. Ma, attenzione, una cosa per la Fisac-Cgil, Renzi l’ha fatta giusta: mettere il tetto di 240 mila euro ai manager pubblici (con le dovute eccezioni, s’intende). Ciò nonostante, “i compensi rimangono troppo alti: nel 1970 il rapporto era 1 a 30 oggi è più che triplicato”.

TROPPE DISEGUAGLIANZE 

Un ultima considerazione riguarda le diseguaglianze tra diverse categorie di lavoratori e per area geografica in termini di retribuzioni. Nel 2016, al Sud, si è guadagnato in media il 14% in meno, le donne il 20%, un giovane tra i 15 e i 34 anni il 21% in meno rispetto alla media.


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