Ius soli, chiusura dei porti alle ong, crisi in Libia sono solo alcuni dei punti caldi del dibattito sull’immigrazione. Ecco l’opinione di Andrea Riccardi, fondatore e presidente della Comunità di Sant’Egidio, espressa in questa conversazione con Formiche.net
Presidente, lei a marzo ha incontrato François Hollande e il mese dopo Angela Merkel, ricevendo incoraggiamento sui corridoi umanitari. Il vertice di Tallinn ha rivelato invece un asse franco-tedesco contro l’apertura dei porti, se l’aspettava?
Io credo che purtroppo il risultato di Tallinn sia il frutto di vedere il problema dei rifugiati e dei migranti solo nella prospettiva del proprio paese, sulla base delle fibrillazioni degli elettorati. Ora si è consolidata a Est una posizione che possiamo chiamare “l’intesa dei tre mari di Višegrad”, cioè un’Europa che dice no in senso totale agli immigrati e ai rifugiati e afferma la necessità di difendere la propria identità etnico-cristiana. Questa è la posizione, ad esempio, della Polonia.
E a Ovest invece che linea prevale?
Ad Ovest non mancano espressioni di solidarietà come quella della Merkel o quella della Francia, ma la realtà politica è molto complessa e articolata, come in Germania, dove fra poco ci saranno le elezioni. La Francia stupisce di più: è vero che anche i francesi sono alle prese con tanti problemi, mi sembra però che abbiano una scarsa sensibilità verso quello che è il dramma italiano e greco. Ovviamente il dramma è relativo, perché è sempre percepito come maggiore rispetto a quanto sta effettivamente avvenendo. Io continuo a dire che il numero di migranti alla fine non è così eccessivo se giocato sull’intero continente europeo. Se vogliamo creare una vera unione dobbiamo lavorare insieme sul problema delle frontiere ma soprattutto in Africa: su questo il G20 e la Merkel stanno andando avanti in modo più intenso.
Come ci si deve muovere per l’Africa?
Bisogna misurarsi con i giovani africani che non credono di avere più un futuro nel loro paese, coinvolgere i presidenti dei governi africani perché operino per ridare loro fiducia, creare condizioni di lavoro. Serve poi un maggiore coinvolgimento della politica africana: hai mai visto un presidente di quel continente che è venuto a inchinarsi a Lampedusa davanti ai propri caduti? Non si tratta di un discorso di emergenza ma di lungo periodo.
La chiusura dei porti minacciata da Minniti è una soluzione per l’Italia per far sentire la sua voce?
Non so se si tratta di una minaccia politica o di una soluzione concreta che sarà messa in atto. Credo che l’Italia debba strutturare un piano B, assumersi le proprie responsabilità, costruire una catena di accoglienza e di gestione della migrazione più efficace di quella che c’è ora. E soprattutto che debba incassare su altri fronti il danno della mancata solidarietà europea.
Cioè?
Cioè siamo un paese con un certo deficit e dobbiamo chiedere all’Europa flessibilità. Un altro punto è quello degli aiuti europei: la mia sensazione è che debbano essere gestiti in modo molto più efficace. Sono preoccupato che possano nascere situazioni di crisi, perché i migranti che si trovano soli, buttati qua e là sul territorio nazionale possono essere all’origine di problemi. È necessario farli lavorare, insegnare la lingua, integrarli.
Il 19 giugno a Roma c’è stata la firma, grazie alla mediazione di Sant’Egidio, di uno storico accordo per la pace in Centrafrica. Una road map per gli altri paesi da cui partono i migranti?
Io sono convinto che la guerra, vedi il caso siriano, sia uno dei maggiori fattori di abbandono del proprio paese. La guerra è una perdita per tutti, l’idea di isolarla chirurgicamente non regge. La lotta per la pace serve per dare sicurezza alla gente. Sant’Egidio è una realtà eurafricana: noi abbiamo molte realtà in Africa di persone giovani e adulte che sentono come una responsabilità patriottica di restare nel proprio paese e lottare per un futuro migliore. Bisogna far crescere questa coscienza ma anche dare opportunità. Il discorso dei corridoi umanitari prefigura quello delle porte: noi abbiamo bisogno di migranti, non nascondiamocelo, il deficit demografico in Europa è evidente. Perché non apriamo dei corridoi sicuri? L’altra priorità è il contrasto del terribile business dei traffici e della morte, che si insinua là dove gli stati sono deboli e non controllano.
A proposito del business dei migranti, le recenti critiche all’operato delle ONG le sembrano ingiuste?
Non mi sembra il problema principale, mi sembra un po’ come se un moribondo si occupasse di un’unghia incarnita. Il grande problema oggi si chiama Libia: qui si è assistito alla follia di sostituire Gheddafi quando non si aveva ancora in mente una road map per il futuro. Quelli che sono intervenuti in Iraq hanno commesso lo stesso errore in Libia: oggi l’instabilità libica è un enorme problema con il suo contagio di tutta l’Africa sahariana e saheliana. Ma affrontiamo l’immigrazione in maniera umana: io ho sentito il dibattito al Senato e c’erano toni che non mi sembravano tanto profondi. Capisco che ormai la pressione è salita e sembra impossibile tornare indietro: secondo me, però, non bisogna avere tutta questa paura: l’esperienza dell’inserzione dei siriani in Italia, ad esempio, è stata estremamente positiva. Quelle persone, se tornerà la pace, vorranno tornare nel proprio paese.
A giugno Sant’Egidio ha fatto un appello ai parlamentari per non strumentalizzare la questione dello ius soli. La versione in discussione a Montecitorio vi soddisfa?
Lo ius soli si deve fare, qualunque forma si trovi. Prima di tutto perché è giusto e umano, soprattutto nei confronti dei bambini. Quando ero ministro dell’Integrazione e della Cooperazione internazionale avevo rilanciato il tema dello ius culturae: i ragazzi che compiono un ciclo di studi elementare nel nostro paese potevano accedere alla cittadinanza. Io credo sia molto importante per l’integrazione far si che a scuola un bambino immigrato possa dire di essere italiano come gli altri. In Italia dobbiamo lavorare per integrare le seconde generazioni. C’è un ritardo strano, inspiegabile. L’integrazione in Italia in larga parte l’ha fatta la famiglia, una parte della nostra immigrazione è costituita da badanti e colf.
Come si spiega allora che in Francia ci sono terze generazioni di immigrati che, pur avendo la cittadinanza, si aprono alla radicalizzazione?
Infatti il problema non è la cittadinanza. Come dice Olivier Roy c’è un’islamizzazione dei radicalizzati, non il contrario. Io conosco un po’ la banlieue di Parigi e lì radicalizzarsi è molto facile, forse trent’anni fa questi individui sarebbero diventati marxisti, oggi diventano islamisti radicalizzati. Il vero problema è sottrarre il terreno alla radicalizzazione, e qui entrano in gioco le periferie. In Italia siamo avvantaggiati, non abbiamo periferie sterminate, ma non dormiamo sugli allori: situazioni come quella di Roma, in cui c’è una periferia sempre in grande difficoltà, non mi fanno sentire sicuro.