Un paragone curioso ma non troppo, quello tra Paolo Villaggio e Giovannino Guareschi: divisi da moltissime cose ma accomunati dal destino di autori invisi, per il loro straordinario successo popolare, alle intellettualità italiane. Per ricordare l’attore e scrittore appena scomparso pubblichiamo uno stralcio tratto dal libro di Marco Ferrazzoli “Guareschi l’eretico della risata” (Costantino Marco editore, 2001).
Il “paradosso di Guareschi” va inserito nella diatriba, almeno nel nostro Paese eterna, tra gli intellettuali d’élite, dagli scarsi esiti di vendite, e coloro che incontrano i gusti del grande pubblico senza però ottenere la “laurea” dell’intellighenzia. Una polemica che coinvolge da Liala a Piero Chiara, da Luciano De Crescenzo ad Alberto Bevilacqua, dal Cuore deamicisiano a Va’ dove ti porta il cuore. […]
Ma è il caso del ragionier Fantozzi di Paolo Villaggio, forse, a presentare le maggiori analogie con quello guareschiano: anch’egli partì come protagonista di racconti settimanali, sull’Europeo, per poi passare ai libri e ai film e quindi divenire una figura comune dell’immaginario collettivo e un caso editoriale eclatante (i primi due volumi hanno venduto più di due milioni di copie).
Come Don Camillo, anche Fantozzi fu protagonista di una memorabile battaglia contro i diktat delle lobby culturali (la famosa rivolta del “cineforum” contro “la boiata pazzesca”, alias Corazzata Potemkin), e queste a loro volta non mancarono di ricambiarne il disprezzo: “Fui invitato a un incontro tra russi e autori italiani tradotti nella loro lingua” ricorda Villaggio “e per me era una sorpresa apprendere che ero conosciuto a Mosca. Mi presento e prende la parola il famoso poeta Evgenij Evtusenko: ‘Lo scrittore italiano che mi piace di più è Vigliacco’. Voleva dire Villaggio. Appena mi muovo, Moravia si volta verso di me coi suoi ciglioni folti e ha l’aria di dire ‘ma che cazzo ci fa qui questo attore della televisione?’”.
Per far partire la raffica delle accuse dell’establishment contro la cosiddetta letteratura “facile” o “d’evasione” bastano pochi indizi (oltre ai dati di vendita, ovviamente): l’ambientazione localistica o familiare, l’esplicitazione o l’abbondanza dei sentimenti, l’umorismo, un plot troppo avventuroso o, all’opposto, la struttura seriale. […] Né regge l’accusa, mossa più in generale all’intrattenimento popolare – dal fotoromanzo al rotocalco, dallo sceneggiato televisivo al varietà – di rubare spazio alla “Cultura con la C maiuscola”. Perché considerare l’iniziazione “leggera” pregiudizievole per la sua maturazione di un utente culturale, anziché come un buon viatico? La cultura di consumo non potrebbe essere complementare a quella “alta”? E poi, come distinguere ciò che piace perché è classico da ciò che va semplicemente di moda?
La questione è più complessa. Come scrive Spinazzola, non è possibile “limitarsi a registrare le motivazioni dei consensi” sostenendo “che il pubblico ha sempre ragione”, e d’altra parte “non è meno abusivo pensare che il pubblico abbia sempre torto”. Se da un lato “le formule di scrittura più collaudate e quindi commercialmente meno rischiose” rischiano di incorrere “nella saturazione”, dall’altro anche le opere “di avanguardia” “per le quali non vi sia alcuna richiesta” rischiano di avere effetti negativi “sulla stessa attività creativa”. Un buon “sistema culturale” dovrebbe insomma inquadrare “una normale dialettica istituzionale tra libro di ricerca e libro di successo”. Spinazzola ha ribadito il suo moderato giudizio, inserendo Guareschi e D’Ambra, Pitigrilli, Scerbaneco e Fallaci tra gli autori della “letteratura della piacevolezza scorrevole e della seduzione accorta”, che “rispettano un’idea di decoro formale ma sono estranei a ogni problematicità arrovellata” e “assolvono una funzione di snodo centrale nell’intrico di domande e offerte tra mondo della lettura e mondo della scrittura”.