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Popolare di Vicenza e Veneto Banca, tutte le bizzarrie del Fondo di risoluzione

Fondo Risoluzione, Popolare

Veneto Banca e Popolare di Vicenza sono state due delle 558 banche italiane che hanno versato contributi al Fondo di risoluzione europeo (Single resolution fund o Srf). C’è un problema però: quasi tutti questi istituti, poiché non hanno dimensioni sistemiche, non potranno mai finire in risoluzione e quindi non potranno utilizzare le risorse del fondo, se si trovassero vicine al fallimento. Perciò di fatto si tratta di un contributo che la gran parte degli istituti medio-piccoli fornisce per l’eventuale risoluzione di una grande banca europea. Le maggiori nell’Eurozona per dimensioni del bilancio sono nell’ordine Bnp Paribas, Credit Agricole, Deutsche Bank , Santander e Société Générale (dati R&S Mediobanca a fine 2015).

Il Fondo europeo può intervenire solo nelle risoluzioni e dopo il bail-in dell’8% del passivo della banca in crisi. Ma le risoluzioni possono partire solo se il Single Resolution Board verifica le condizioni per attivare la procedura. Questo non è avvenuto nel caso di Veneto Banca e Popolare di Vicenza, ritenute troppo piccole (a differenza di Banco Popular) e quindi non capaci di generare un «interesse pubblico» per far partire la risoluzione. «Le normali procedure di insolvenza italiane raggiungono gli stessi obiettivi della risoluzione», ha scritto il Srb per i due istituti veneti. La decisione ha aperto la strada alla liquidazione ordinata secondo la legislazione italiana, che ha scongiurato perdite per creditori senior e depositanti oltre 100 mila euro. Si pone ora però la questione del Fondo di risoluzione. Le due banche venete erano attorno al quindicesimo posto per attivo tra gli istituti italiani. Ciò implica che le banche italiane più piccole di Veneto Banca e BpVi presumibilmente non avranno dimensioni sufficienti per innescare un «interesse pubblico». Di conseguenza le risoluzioni sono soltanto un costo per molte banche medio-piccole, mentre i beneficiari di questi versamenti potranno essere solo i grandi gruppi europei: una disparità che potrebbe essere corretta nell’ambito della revisione in corso della Brrd.

Gli istituti medio-piccoli non potranno passare dalla direttiva Brrd, ma dalle leggi nazionali: per loro non ci sono alternative alla liquidazione. Una lacuna significativa delle regole Ue. L’operazione Veneto Banca-BpVi, in linea teorica, apre spiragli a una soluzione con lo stesso schema (quindi con burden sharing e bad bank) in eventuali altri casi simili, sempre che la Commissione Ue riconosca i «liquidation aid» compatibili con le regole sugli aiuti di Stato, come avvenuto per le venete. Resta comunque il vuoto legislativo della direttiva Brrd su come affrontare le crisi dei piccoli istituti.

Tornando al Fondo di risoluzione, nel dettaglio le quote di contribuzione annuale di ciascuna banca sono determinate in base alle passività al netto dei fondi propri, dei depositi protetti e, per gli enti appartenenti a gruppi, delle passività infragruppo. La base contributiva è poi corretta in base al profilo di rischio. A regime, cioè nel 2024, il Fondo disporrà di risorse pari all’1% dei depositi protetti, corrispondenti a circa 55 miliardi di euro, di cui circa 5,7 versati dalle banche italiane. Il Single Resolution Fund è inizialmente suddiviso in comparti nazionali separati: nel giro di otto anni a partire dal 2016 la percentuale allocata ai comparti nazionali diminuirà in maniera progressiva, mentre la componente mutualizzata aumenterà fino a raggiugere il 100% nel 2024. Nel 2016 le risorse raccolte in Italia e trasferite al Fondo di risoluzione hanno raggiunto i 762 milioni di euro, versati da 558 banche e 4 sim.

(Pubblicato su MF/Milano Finanza, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)


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