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Popolare di Vicenza e Veneto Banca, cosa succederà dopo la liquidazione

Salvataggio

La vicenda delle banche venete ha mostrato che un salvataggio bancario, in assenza di compratori privati disposti a farsi carico dell’intera operazione, può avere successo soltanto se è prevista in qualche modo la partecipazione dello Stato. Questo principio, verificato in ogni parte del mondo, è stato violato dai legislatori europei (quindi in parte anche italiani) con la direttiva Brrd: attraverso le risoluzioni e il bail-in è stata introdotta una normativa opposta, che ha escluso lo Stato e imposto nelle crisi il coinvolgimento dei privati, inclusi i creditori senior e i depositanti oltre 100 mila euro.

Il modello previsto dalla Brrd può apparire corretto in principio, ma non funziona nella realtà. I sostenitori del bail-in (e coloro che ritengono che lo Stato non debba mai muoversi nelle crisi) dovrebbero guardare all’esperienza recente. Dagli Stati Uniti all’Europa, ovunque si è fatto ricorso al denaro pubblico per mettere a posto i bilanci bancari, evitare fallimenti e salvare il risparmio dei cittadini. Il caso più incredibile è quello della Germania, che ha prima iniettato 250 miliardi nelle banche nazionali e poi, quando ha finito di farlo nel 2013, è diventata la prima sostenitrice del bail-in. Se Berlino ritiene così opportuno il coinvolgimento dei privati, perché ha usato sempre e solo denaro pubblico? In realtà anche la Germania ha usato il denaro dei contribuenti per evitare di intaccare la fiducia nelle banche domestiche.

Le ragioni dell’avvio del bail-in, come appare ogni giorno più evidente, sono state politiche e non economiche: è stato lo strumento con cui i Paesi forti dell’Eurozona (innanzitutto la Germania) hanno messo al guinzaglio quelli deboli, in primis l’Italia, che nel 2013 usciva dalla crisi dello spread e non aveva ancora affrontato la questione bancaria. Le risoluzioni non hanno avuto lo scopo di creare regole efficaci o di garantire il bene dell’Unione nel complesso, ma piuttosto quello di impedire che il denaro nordeuropeo potesse essere impiegato per le crisi delle banche del Sud. Allo stesso modo la vigilanza è stata usata per guardare i crediti deteriorati del Sud e non i derivati e i titoli tossici del Nord. Oltre a ciò non è stata varata la garanzia comune dei depositi. Sin dall’avvio l’Unione Bancaria è stata imperfetta e sbilanciata nei suoi tre pilastri (vigilanza, risoluzione, tutela dei depositi): non si può dire sia morta ora a causa della liquidazione delle banche venete, per la semplice ragione che non è mai nata davvero.

Non a caso anche dopo la direttiva Brrd ogni Paese con una crisi bancaria da gestire ha evitato il bail-in come la peste. È accaduto in tutta Europa (e anche in Italia) a fine 2015, quando si è intervenuti di corsa sugli istituti in difficoltà prima della partenza del bail-in dal gennaio 2016. Più recentemente la Spagna ha accettato la risoluzione del Banco Popular solo perché Santander ha dato disponibilità a salvarla con un aumento di capitale da 7 miliardi: così Madrid è sfuggita alla svalutazione di bond senior e depositi oltre 100 mila euro.

Sarebbe stata una beffa se l’Italia, il Paese che meno di tutti ha utilizzato aiuti di Stato, fosse stato l’unico ad applicare in modo esteso il bail-in (ancor più pericoloso del burden sharing sperimentato per le quattro banche in risoluzione), vivendo una nuova forte instabilità finanziaria. Va dato atto a governo e Banca d’Italia di aver scongiurato questo scenario catastrofico. Le autorità europee (Bce, Single Resolution Board e Direzione Concorrenza della Commissione Ue guidata da Margrethe Vestager) hanno usato per una volta il buon senso: perciò non sorprende che siano ora criticate dai falchi del bail-in (presenti anche in Italia). Ma è probabile che, al di là di qualche protesta da Berlino, anche la cancelliera Angela Merkel abbia compreso il rischio per l’euro che sarebbe sorto mettendo in ginocchio il Veneto e di conseguenza l’Italia. Non secondariamente, anche la Germania potrebbe presto ritrovarsi a gestire una o più crisi bancarie, nonostante i 250 miliardi già impiegati e un’economia che non ha vissuto una forte recessione.

La soluzione per le banche venete, varata secondo le regole italiane sulle liquidazioni coatte amministrative, è stata la migliore possibile: ha salvaguardato al meglio i risparmi, minimizzando i costi. Senza i dogmi delle risoluzioni europee, scongiurate perché mancava «l’interesse pubblico» a farle partire, si è tornati alla normalità di ogni salvataggio bancario: sono state adottate le misure più razionali dal punto di vista esclusivamente economico. Le due banche sono entrate nel perimetro di una banca grande, Intesa Sanpaolo , che potrà rilanciare gli istituti riportando fiducia sul territorio. Si è potuta utilizzare una bad bank finanziata dallo Stato (proprio la Sga usata con successo per il Banco di Napoli) che ha acquistato crediti deteriorati dei due istituti: ora ci sarà più tempo per valorizzare i non-performing loans, evitando un trasferimento di valore a fondi o banche estere e consentendo nel medio termine un possibile ritorno per le casse pubbliche (fino a compensare del tutto l’esborso immediato, comunque già accantonato e senza impatto di finanza pubblica). La borsa ieri ha esultato, lo spread è sceso, tutti gli operatori finanziari hanno tirato un sospiro di sollievo. Per il settore bancario italiano può essere la svolta.

Il lato negativo della vicenda è che non è stato possibile applicare sin dall’inizio uno schema di salvataggio rapido ed efficace. Un anno fa le due banche venete erano in condizioni meno gravi. Si è dovuti invece passare per tutte le incognite dei salvataggi Ue, peggiorando la loro salute. Si spera che ora la lezione sia imparata e l’anno prossimo la Brrd sia rivista per dar vita a un meccanismo di gestione delle crisi veloce e funzionante, nel quale anche lo Stato possa avere un ruolo, a determinate condizioni e in situazioni di emergenza.

(Articolo pubblicato su MF/Milano Finanza)


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