Nelle analisi sul Medio Oriente un fattore abusato, e spesso addirittura fuorviante, è quello dello storico conflitto tra sunniti e sciiti. Come prova anche la crisi tra il Qatar e gli altri Paesi del Golfo, interessi economici e geopolitici pesano spesso di più e, come vedremo, il mondo sunnita è a sua volta diviso molto più di quanto si pensi.
Su Formiche.net abbiamo già parlato della svolta a 180 gradi impressa dall’amministrazione Trump alla politica americana in Medio Oriente rispetto agli otto anni di presidenza Obama. Dal non disturbare l’Iran nei suoi disegni egemonici al ritorno al fianco dei tradizionali alleati nella regione, Israele e i Paesi arabi sunniti, per contenere e isolare il regime degli ayatollah.
L’ex presidente Obama ha pensato che facendo uscire Teheran dal suo isolamento, con un accordo sul nucleare che prevedesse il progressivo alleggerimento delle sanzioni occidentali, di fatto riconoscendo il suo status di potenza regionale, l’Iran potesse trasformarsi in un fattore di stabilità e gli Stati Uniti avrebbero potuto finalmente ridurre il loro dispendioso impegno in Medio Oriente. Per non pregiudicare quella storica intesa, Obama ha chiuso più di un occhio sull’endemico ruolo destabilizzante degli iraniani nella regione, persino accettando che fosse travolta la sua “linea rossa” sull’uso di armi chimiche in Siria da parte del regime di Assad.
Ma l’idea che i problemi del Medio Oriente si potessero risolvere riammettendo Teheran nel gioco tra le potenze regionali si è rivelata una illusione, come dimostra il passato e presente comportamento degli iraniani. Al contrario, il tentativo di “appeasement” ha incoraggiato Teheran a perseguire con maggiore spregiudicatezza i suoi disegni egemonici, dall’Iraq e la Siria allo Yemen, passando per il Libano. E come una scintilla nella polveriera ha infiammato le tensioni regionali: i tradizionali alleati arabi sunniti, sentendosi traditi da Washington e spaventati, hanno reagito anche flirtando con i gruppi jihadisti in Siria in funzione anti-iraniana. Una tentazione in cui è caduta persino la Turchia di Erdogan, un paese Nato.
La realtà è che non ci sono partner ideali in Medio Oriente. Nessun regime nella regione ha interessi, tanto meno valori, identici a quelli americani e occidentali. Premesso che gli Stati Uniti (e l’Occidente) non possono permettersi di non avere una politica in Medio Oriente, e che la disastrosa situazione ereditata nella regione non offre molte altre scelte, si tratta di scegliere tra il male e il peggio. E allora perché, in questo conflitto per procura in corso tra l’Arabia Saudita e i suoi alleati sunniti del Golfo da una parte e l’Iran sciita e alcuni alleati (come il regime di Assad e Hezbollah in Siria, gli Houthi in Yemen) dall’altra, gli Stati Uniti hanno preferito tornare all’alleanza con i primi anziché continuare sulla strada dell’apertura a Teheran tracciata da Obama?
L’aspetto decisivo è che, al contrario degli iraniani, i sauditi fino ad oggi hanno dimostrato di accettare di muoversi all’interno di un ordine caratterizzato dalla leadership americana, mentre Teheran intende sfidarla e sostituirsi ad essa, esportare la rivoluzione khomeinista ed estirpare Israele dalle mappe del Medio Oriente. Per il regime degli ayatollah il terrorismo è parte integrante dell’arte del governo e della sua politica estera. Fu il primo in Libano, negli anni ’80, a sperimentare con successo le missioni suicide, facendo scuola dai gruppi palestinesi fino ad Al Qaeda e all’Isis. E quando c’è un nemico comune da abbattere anche il dissidio con i sunniti passa in secondo piano. Noto il sostegno iraniano ad Hamas (movimento sunnita della Fratellanza musulmana) contro Israele. Così come il permesso concesso ad Al Qaeda di attraversare il territorio iraniano come strategica via di collegamento tra l’Afghanistan, a est, e l’Iraq, a ovest. Tra gli stati, l’Iran è ancora oggi il principale sponsor del terrorismo al mondo.
L’obiezione è che anche l’Arabia Saudita è un regime dispotico la cui religione ufficiale è una delle versioni più fondamentaliste dell’islam, il wahabismo (che a suon di petrodollari i sauditi si sforzano di diffondere, anche in Europa, attraverso moschee e scuole coraniche), e che la loro condotta nei confronti dell’estremismo e del terrorismo islamista presenta ancora troppe ambiguità. Nonostante tutte le sei monarchie del Golfo abbiano sottoscritto nel 2014 la Dichiarazione di Jeddah, in cui si impegnano a non tollerare finanziamenti ai gruppi terroristici e a “ripudiare la loro ideologia d’odio”, ci sono ancora delle omissioni nelle liste delle organizzazioni bandite e nel perseguire i finanziatori privati sul loro territorio.
Tuttavia, dal 2003 al 2006 la monarchia saudita ha combattuto duramente per sedare una ribellione interna di Al Qaeda e dopo l’ondata delle cosiddette primavere arabe nel 2011 ha elevato il proprio grado di allarme per la minaccia sovversiva dell’islam radicale, mentre il Qatar offriva il suo generoso sostegno ai movimenti politici e militari della Fratellanza musulmana (tra cui Morsi in Egitto e Hamas a Gaza) in tutto il mondo arabo, nel tentativo di sfidare l’ordine esistente. Ed è proprio questo uno dei motivi fondamentali della rottura con Doha.
Oltre al conflitto con gli sciiti, infatti, c’è uno scontro per l’identità e la leadership politica dell’islam sunnita che vede Arabia Saudita e Qatar su fronti contrapposti. Entrambe le famiglie regnanti si ritengono i veri discendenti del fondatore del wahabismo, quindi dal punto di vista dottrinario si richiamano alle origini dell’islam, ma con intenzioni e implicazioni molto diverse dal punto di vista politico. Per i sauditi il vero Islam, la versione wahabita, si deve rafforzare e diffondere preservando le realtà statuali arabe formatesi negli ultimi cento anni, mentre per i Fratelli musulmani (di cui fa parte anche il partito di Erdogan) che i qatarini sostengono è necessario abbattere i regimi esistenti per unificare le nazioni arabe sotto la stessa guida islamica.
Questo spiega l’ambivalenza di Riad. Dal punto di vista strettamente teologico l’Isis, Al Qaeda e la galassia dei gruppi jihadisti si richiamano evidentemente al wahabismo saudita, ma dal punto di vista dell’ideologia politica, derivata dai Fratelli musulmani, rappresentano una minaccia esistenziale per il Regno dei Saud, dal momento che puntano a una qualche forma di califfato, di unificazione della “umma”, la comunità musulmana sunnita, e muovono guerra all’Occidente, non solo agli sciiti.
Negli ultimi anni sembra però che a Riad la ragion di Stato stia prevalendo sulle affinità religiose. Se moschee e centri culturali sia del wahabismo saudita che dei Fratelli musulmani, in competizione tra loro, pullulano anche in Europa ed è un nostro problema limitare, anzi respingere, sia gli uni che gli altri, in quanto portatori di una versione dell’islam incompatibile con i valori occidentali, dal punto di vista geopolitico i recenti sviluppi inducono a propendere verso l’alleanza con i sauditi. Le monarchie del Golfo durante il summit di Riad con il presidente Trump hanno risposto positivamente alla richiesta americana di fare di più per sradicare l’estremismo e il terrorismo islamista.
Le ultime mosse suggeriscono anche che il Regno, uno dei regimi più dispotici e retrivi del mondo islamico, sia alla vigilia di una stagione di profondi cambiamenti, socio-economici e culturali, che potrebbero far entrare il paese nella modernità, fino ad oggi respinta, spingendo gli altri paesi arabi sunniti a seguire lo stesso percorso. E in tal senso va letta la recente decisione di Re Salman di cambiare la linea di successione in favore del figlio 31enne Mohammed bin Salman, giovane e riformatore, sostenitore del piano di riforme “Vision 2030” per diversificare l’economia saudita, ma anche di cambiamenti culturali, che implicano un certo grado di separazione tra politica e religione. Vedremo alla prova dei fatti il riformismo saudita, ma finora quello iraniano incarnato dal presidente Rouhani, che aveva suscitato forse eccessive aspettative nelle capitali occidentali, si è rivelato inconsistente, solo retorico e cosmetico.