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La lezione di Tallinn su migranti e Libia

lorien, Tallinn

L’esito negativo della recentissima riunione di Tallinn, in cui si sono incontrati i ministri degli Interni della Unione europea per discutere la proposta italiana di regionalizzare gli sbarchi dei migranti, era assolutamente scontato e rappresenta l’ultimo anello di una sequenza impressionante di errori politici.

La crisi provocata dai migranti che attraversano il Mediterraneo al ritmo di migliaia al giorno per approdare in Italia sta finalmente rompendo quella spessa crosta di ipocrisie, di atteggiamenti perbenistici e di schemi culturali che ci hanno accompagnato dal dopoguerra. Il tradizionale solidarismo territoriale e sociale, che è già saltato dai primi anni Novanta nel rapporto interno tra nord e sud dopo aver costituito l’asse portante della Prima Repubblica, viene ora messo in discussione nei confronti di questa ondata di immigrati.

Insieme alla guerra, l’Italia ha perso quel poco di capacità, per la verità sempre controversa e labile, di immedesimarsi in un interesse nazionale nei confronti degli altri Stati. Per dimenticare il fascismo, l’orribile gestione dell’armistizio di Cassibile, la crisi della monarchia e la penosissima Pace di Parigi che dovemmo accettare prima di poter approvare la Costituzione repubblicana, tutto si stinse dapprima nella contrapposizione tra Atlantismo da una parte ed appartenenza all’internazionalismo comunista dall’altra, quindi nel comune anelito europeista. Anche il ritrovato orgoglio di esporre la bandiera italiana, ma solo a condizione che ci fosse insieme quella europea, dimostrò quanto fosse profondamente ipocrita questo patriottismo: fu un artificio per mettere la bandiera europea dappertutto, per una nuova diluizione dell’identità nazionale, ideale e politica, nell’europeismo.

Caduto il Muro e con esso il vento delle ideologie, anche la politica estera italiana ha perso i suoi punti di riferimento tradizionali. Chi di recente ha provato a fare politica estera, come Silvio Berlusconi, lo ha fatto spesso a titolo personale, intessendo i rapporti più diversi a prescindere da logiche geopolitiche: era diventato amico di tutti, da George Bush a Vladimir Putin; e frequentava con la identica disinvoltura il premier turco Erdogan e quello egiziano Mubarak. Ma rispettava attentamente le regole non scritte della appartenenza atlantica: condivise tutte le iniziative belliche americane, stipulò a Bengasi il Trattato di particolare amicizia con la Libia solo dopo che l’Amministrazione americana la aveva esplicitamente cancellata dalla lista degli Stati canaglia e promosse l’avvicinamento della Russia alla Nato, con l’incontro di Pratica di Mare.

Le Primavere arabe, tanto sostenute da Hillary Clinton nel suo ruolo di Segretario di Stato durante la prima presidenza di Barak Obama, hanno sconvolto a partire dal 2011 le tradizionali relazioni dell’Italia nel Mediterraneo. E senza neppure valutarne le conseguenze a lungo termine, abbiamo trasformato in profonde incrinature politiche, prima con l’India e poi con l’Egitto, due vicende personali, pur penose e sicuramente strazianti.

In questo mutato contesto, il primo errore strategico fu compiuto suo malgrado dallo stesso governo Berlusconi, quando il suo ministro degli esteri Frattini dichiarò di considerare unilateralmente superato il Trattato di particolare amicizia con la Libia, che ci impegnava a sostenerne la unità territoriale e politica ed a non mettere a disposizione basi militari nel nostro territorio per azioni che coinvolgessero quel Paese. Da quel momento abbiamo perso qualsiasi credibilità come ex-potenza coloniale garante della sovranità in Libia. Aver assunto il coordinamento delle forze navali durante le operazioni volte ad implementare la no-fly zone, non ha fatto che peggiorare la nostra posizione, mentre l’Operazione Mare Nostrum è rimasta impaniata nella contraddizione tra l’obiettivo del pattugliamento marittimo e l’onere dei salvataggi in mare. Senza una strategia a terra, era inutile.

Il secondo errore strategico è stato commesso dal governo Renzi, nei mesi in cui la Cancelliera Angela Merkel cercava di porre rimedio all’annuncio, inatteso e generosissimo, di accogliere un milione di profughi siriani per sottrarli alla tragedia della guerra civile: aveva messo in moto una inarrestabile processione di migranti, di ogni provenienza, che si snodava per tutti i balcani. La Cancelliera volò ad Ankara, per trovare un accordo con il presidente Erdogan: promise soldi, europei, in cambio di ospitalità. La Turchia diventava Paese di contenimento della rotta balcanica, così come lo era stata la Libia di Gheddafi nei confronti di quella sub-sahariana. Per l’Italia, era il momento di trovare un accordo analogo con l’Egitto del presidente Al-Sisi, al fine di contenere gli afflussi di profughi dal Mediterraneo ed evitare il travaso tra le due rotte. Invece di opporsi con ogni mezzo e con ogni alleato possibile, da Malta alla Spagna, a quell’accordo asimmetrico, il governo Renzi si limitò a proporre il Migration Compact, una iniziativa della Unione che affrontasse organicamente la problematica prendendo spunto dall’accordo raggiunto con la Turchia. Naturalmente, non se ne fece niente: mentre la Germania aveva risolto brillantemente i suoi problemi, scaricandone il costo sulla Unione, le missioni europee Triton e Sophia, subentrate all’operazione Mare Nostrum su richiesta dell’Italia per una condivisione dei costi e degli sforzi, hanno concentrato sulla accoglienza in Italia dei flussi migratori: l’Italia viene ormai considerata un Paese di contenimento dell’ondata migratoria. Le frontiere dell’Europa sono le Alpi.

La lezione di Tallinn è utile perché porta a riflettere, finalmente senza i paraocchi del passato: in primo luogo, è possibile e doveroso rimediare agli errori compiuti per inesperienza, o per eccesso di generosità come è accaduto alla Cancelliera Merkel; secondo, non si devono incrinare i rapporti politici con gli Stati per vicende personali, per quanto siano dolorose e strazianti; terzo, non possiamo continuare, per buonismo e perbenismo, ad essere complici di uno sradicamento di massa organizzato dallo schiavismo economico, devastante sul piano culturale e personale, che comporta la spoliazione di intere comunità delle energie più giovani e la disintegrazione del tessuto sociale dei Paesi ospiti, come si osserva da anni in Francia; quarto, l’Europa è la sede in cui si confrontano interessi nazionali confliggenti e non l’Empireo del bene assoluto.

Non è sulla straordinaria pazienza degli italiani e sulla solidarietà dell’accoglienza in Europa che possiamo contare, quanto sulla capacità di coinvolgere l’Egitto e le ong in un grande piano di accoglienza temporanea: non serve solo un disegno politico e la sua narrazione, ma tante energie umane, idealità e denari. Ex malo bonum.

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