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Perché contesto le tesi di Vincenzo Visco anti Flat tax

Di Emanuele Canegrati

Il professor Vincenzo Visco, nel suo articolo “Flat tax, un conto pesante per i ceti medi”, pubblicato su Il Sole 24 Ore del 28 giugno scorso, ha espresso il suo parere, fortemente contrario, a qualsiasi forma di tassazione “piatta”, adducendo motivazioni di ordine tecnico e morale contro questo sistema di tassazione. Anche il professor Enrico De Mita, nel suo articolo “La progressività resta cruciale”, pubblicato sul Il Sole 24 ore del 27 giugno, si è detto contrario alla flat tax, sostenendo, invece, i presunti benefici della “progressività fiscale” richiamata dall’art. 53 della nostra Costituzione.

Vorrei provare a smontare le tesi di Visco e De Mita, che appartengono entrambe al “costruttivismo fiscale”, ovvero a quella scuola di pensiero presente nel dibattito accademico moderno, la quale crede che il modo di vedere e dare senso ad un sistema tributario moderno debba rendere necessariamente quel sistema complesso.

Innanzitutto, una precisazione. Un sistema fiscale di tipo flat con deduzione alla base è, a tutti gli effetti, un sistema progressivo, in quanto è dimostrabile matematicamente che l’aliquota media aumenta più che proporzionalmente all’aumentare del livello di reddito tassabile. Di conseguenza, un tale sistema rispetta in tutto e per tutto il dettato costituzionale. Quindi, chiunque si esprima a sfavore della flat tax sulla base di una sua presunta “incostituzionalità” farebbe bene a studiarsi un po’ di matematica dei sistemi fiscali.

Secondariamente, nel suo articolo, il professor Visco, afferma che “in sostanza le imposte non sono solo una questione economica, ma anche un problema etico e di giustizia”. Verissimo. Tanto che, il professor Kurt Leube, dell’università di Stanford, nella sua introduzione al libro dei professori Robert Hall e Alvin Rabushka, Flat tax – vera e propria Bibbia della materia – ricorda come, nella storia, la tassazione progressiva fosse stata considerata sempre fondamentalmente iniqua. Il grande economista inglese John Stuart Mill, ad esempio, la deplorava addirittura come “una forma lieve di ladrocinio”. Fu soltanto con l’avvento di Karl Marx e Frederich Engels, nell’Ottocento, ripresi poi dalla scuola cattedratica socialista tedesca, che il principio di progressività fiscale prese piede, grazie ad una straordinaria opera di moralizzazione delle masse dove si riuscì ad inculcare l’idea che la politica tributaria dovesse divenire uno strumento col quale trasformare la società in un ordine “socialmente giusto”.

Marx ed Engels ritenevano, infatti, che la progressività dovesse servire al proletariato dopo il primo stadio della rivoluzione come arma per estorcere all’odiata classe borghese tutti i capitali, “per mezzo di dispotiche incursioni abusive nel diritto di proprietà e nelle condizioni della produzione borghese” (testuale, dal Manifest der Kommunistischen Partei). L’epilogo di questo processo di indottrinamento collettivo è riassumibile nell’idea del filosofo prussiano Karl Frantz, che propugnò una trasformazione sociale del capitalismo e della “plutocrazia” da attuarsi tramite “la tassazione progressiva in infinitum”. Ci sarebbero da scrivere pagine e pagine su questa gigantesca opera di moralizzazione delle tasse compiuta nell’Ottocento, ma lo spazio è poco per raccontarla tutta.

Resta, invece, interessante analizzare quali sono gli effetti positivi della flat tax rispetto all’attuale sistema tributario italiano. Li riassumo in tre parole: semplicità, democraticità, efficienza. Semplicità, perché un sistema ad aliquota unica, con eliminazione delle varie detrazioni e deduzioni sul reddito, renderebbe possibile a chiunque compilare da solo la propria dichiarazione dei redditi senza ricorrere a commercialisti, tributaristi, Caf e “burocrati intermedi” che dalla complessità ed inefficienza del sistema tributario traggono il loro business a detrimento delle attività industriali più utili alla crescita economica. Avere la possibilità di rendersi conto da soli di quante tasse si paga rende quindi il sistema anche più democratico, perché il contribuente ha finalmente una “misura conoscitiva” della sua posizione fiscale, che può subito confrontare con il valore dei servizi che ottiene in cambio. Da qui una maggior capacità di valutare la propria classe dirigente in funzione del vantaggio che deriva dal suo apporto alla società.

Pensiamo, inoltre, ai vantaggi per l’amministrazione fiscale, che ridurrebbe al minimo gli oneri per i contenziosi tributari, gli errori compiuti in fase di compilazione e dipendenti dal grado di complessità delle norme, e il numero di iterazioni con il contribuente. Pensiamo a quanti soldi lo Stato risparmierebbe dalla riduzione di questi sprechi. Infine l’efficienza. L’avere una sola aliquota permette di minimizzare le distorsioni in termini di offerta di lavoro presenti nel sistema economico ed elimina l’incentivo a “fingersi povero” per finire in uno scaglione più basso e quindi pagare meno tasse. Ridotto al minimo sarebbe anche l’incentivo ad evadere, perché minori sarebbero gli escamotages normativi ai quali aggrapparsi per minimizzare il proprio debito d’imposta. Un sistema flat è basato infatti su una normativa semplice e con poche norme, quindi difficilmente aggirabile.

Per tutte queste ragioni credo sia opportuno proseguire in questo interessante dibattito apertosi sulla “tassa piatta”, che piace, affascina e appare sempre più come la risposta giusta per far sì che l’Italia sia pronta ad affrontare le moderne sfide dell’economia globale.

Emanuele Canegrati, Ph.D. Fellow, Liechtenstein Academy Foundation

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