Nella notte del 21 agosto 1968, con una rapidissima operazione, le truppe del Patto di Varsavia (sovietiche, polacche, tedesco-orientali, ungheresi e bulgare; la Romania si rifiutò di prendervi parte con le proprie) occuparono la Cecoslovacchia senza incontrare alcuna resistenza se non quella passiva e ostile della popolazione. Jan Palach, un giovane ceco, all’inizio del 1969, si diede fuoco per protesta e divenne il simbolo della resistenza a quel tragico evento che interrompeva manu militari la c.d. Primavera di Praga ovvero il tentativo del Partito comunista cecoslovacco e del suo leader Alexander Dubcek di avviare un profondo programma riformista con la restaurazione delle libertà civili e politiche. Il nuovo corso di Praga non metteva in discussione l’assetto delle alleanze né si proponeva (come la rivoluzione ungherese del 1956) di abbattere il regime comunista. Non c’erano dunque ragioni di politica internazionale o di sicurezza del blocco sovietico che giustificavano quell’intervento (secondo la logica del Patto di Yalta). Peraltro, in quello stesso periodo la Romania era impegnata in una politica estera caratterizzata da significativi distinguo da Mosca. Ma sul piano interno il partito comunista di Nicolae Ceausescu manteneva il controllo del Paese con il solito pugno di ferro. Leonida Breznev, il leader del Pcus, giustificava l’aggressione militare con la necessità di salvare “le conquiste del socialismo”, enunciando il principio della “sovranità limitata” che rimaneva da allora in poi alla base della politica di Mosca sull’Est europeo, con la conseguenza di bloccare ogni tentativo di rinnovamento. La storia si è vendicata applicando fino in fondo la regola del “simul stabunt, simul cadent” ai Paesi del socialismo reale. Ci vollero, però, altri vent’anni per arrivare al 9 novembre 1989 e al crollo del Muro di Berlino.
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L’Ufficio politico del Pci (il partito aveva salutato, con favore e speranza, l’esperienza della Primavera di Praga) espresse un “grave dissenso” (poi confermato al XII Congresso) sull’invasione della Cecoslovacchia. La presa di posizione venne salutata come una svolta radicale nella politica di quel partito a cui tutti erano disposti, allora, a concedere molto credito.
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Gli Stati Uniti erano troppo impegolati nella guerra del Vietnam (e nelle reazioni che quel conflitto determinava sul piano interno) per non attenersi alla tradizionale politica di non ingerenza sulle vicende di Oltrecortina.
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Sono curioso di vedere se e come i quotidiani e i tg ricorderanno quell’evento. Certo non sono ancora trascorsi cinquant’anni dal 21 agosto del 1968; ma una scusa siffatta mi sembrerebbe troppo pelosa.
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Sono sconvolto per la caccia becera e spietata ai monumenti, in corso, negli Usa, in nome di un atteggiamento ritenuto “politicamente corretto” in seguito ad una grande sbornia collettiva. Hanno imparato dai telebani o dai militanti dell’Isis a cancellare le icone della propria storia?
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Ma perché non distruggere anche le effigi di Adamo ed Eva a questo punto? In fondo è per loro responsabilità che non viviamo nel Paradiso terrestre. E che dire della (grande) mela (ora simbolo di New York)?