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Ecco come funziona il business dei gommoni cinesi dietro al traffico dei migranti

Marina Militare, MIGRANTI

Da quando lo youtuber Luca Donadel aveva pubblicato a febbraio un video divenuto virale, in cui monitorava tramite il sito Marinetraffic.com i movimenti delle navi impegnate nei salvataggi nel mediterraneo, la polemica sul ruolo delle ong è deflagrata sui giornali. Il video evidenziava le rotte delle imbarcazioni, mostrando una tendenza ad avvicinarsi di più alla costa libica rispetto agli anni passati. Una domanda sorse spontanea fin da subito: come è possibile che, pur avvicinandosi le navi dei soccorritori, il numero di morti nel Mediterraneo fra il 2016 e il 2017 è aumentato vertiginosamente?

Una risposta l’aveva data a Formiche.net il corrispondente del Tg3 Riccardo Chartroux mentre si trovava a Tripoli lo scorso maggio. “Uno scafista qualche tempo fa mi raccontava che l’operazione Sophia era per loro una grande cosa” raccontava Chartroux il 15 maggio, “sapendo che le navi li aspettano al confine, gli scafisti hanno smesso di caricare i migranti sui barconi di legno. Ora li mettono su dei gommoni che fabbricano loro con la gomma dall’Egitto e la resina libica, poi li mettono in mare dicendo ai migranti che dopo 6 miglia nautiche li aspetta una nave, tanto loro non sanno la differenza fra 6 o 12 miglia”.

In un’inchiesta di gennaio la testata online L’Inkiesta raccontava tutti i dettagli del business dei gommoni comprati dagli scafisti, spiegando come la maggior parte delle barche gonfiabili provenisse da aziende cinesi. Una tesi che si basava sul rapporto semestrale dell’operazione Sophia del dicembre 2015, un documento classificato firmato dall’ammiraglio Enrico Credendino e reso pubblico da Wikileaks tre mesi più tardi. Credendino riferiva come ormai per il business dei traffici umani “i gommoni gonfiabili sono usati nei due terzi dei casi e quelli di legno in un terzo dei casi”.

Mentre le barche di legno sono solitamente “acquistate dai pescatori libici o importate dalla Tunisia o l’Egitto”, l’ammiraglio spiegava che “le segnalazioni di barche di gomma importate dalla Cina e trasbordate a Malta o in Turchia sono supportate da una recente segnalazione della dogana maltese di venti gommoni impacchettati in un container per Misurata, in Libia”.

Quell’operazione della dogana si era conclusa con la restituzione dei gommoni, “perché non c’è nessuna base legale per sequestrare quelle imbarcazioni”. Non è forse un dettaglio irrilevante, scriveva l’Inkiesta lo scorso gennaio, che le partecipazioni del porto di La Valletta, gestito fino al 2008 esclusivamente dalla compagnia navale francese con base a Marsiglia CMA-CGM, siano ora spartite tra il colosso turco Yldrim Group (50%) e quello cinese della China Merchants Holdings International Company Limited (49%).

In un articolo di ieri il Corriere ha riportato l’attenzione sulla compravendita dei gommoni di manifattura cinese: imbarcazioni scadenti, vendute a 500-600 euro da portali come il gigante cinese Alibaba, primo competitor di Amazon, o il sito Boatstogo.com, con una capienza che varia dalle 10 alle 60 persone. Sugli annunci i gommoni sono venduti con il nome di “refugee boat”: una cinica trovata di marketing, dato che nella maggior parte dei casi quelle imbarcazioni non saranno usate per salvare i rifugiati, ma serviranno ai trafficanti per caricarceli e affidarli alla sorte.

Basta dare uno sguardo alle aziende di provenienza per capire che quasi tutti i gommoni sono di produzione cinese: Qingdao, Shenzen e Weihai le città dove i più vengono assemblati. Così l’azienda Zhejihang Anji Huayu Boat Development Co Ltd, della regione di Zhejihang, per citarne una, che su Alibaba.com con il nome di “Refugee boat” vende un gommone nero da 28 piedi dall’aspetto poco rassicurante, sul suo sito espone lo slogan “i migliori prodotti sono fatti dei migliori materiali” e garantisce “severi controlli sulla qualità”. Il mercato nautico cinese è in continua espansione, non solo nel settore della crocieristica, come riporta Bloomberg , ma anche in quello delle barche sotto i 24 metri, prodotte soprattutto nelle regioni orientali del Guangdong e Shandong.

Un mercato che fa gola all’Europa dove, solo fra il 2011 e il 2012, l’import di barche gonfiabili è salito da 161 a 233 milioni di dollari. Secondo l’ultimo rapporto ICE sull’argomento, quello del 2011, il 40,1% dell’export cinese di navi da diporto, un mercato che nel 2010 valeva 204,2 milioni di dollari, è costituito dai gommoni. Un più recente rapporto del 2016 dell’International Trade Administration statunitense mostra come quei numeri siano aumentati: “l’attuale parco barche cinese (quelle registrate) ammonta a 53.836, di cui il 58% sono gommoni”.

Il 4 maggio scorso il commissario dell’UE per le migrazioni Dimitri Avramopoulos aveva incontrato a Pechino il ministro cinese per la Pubblica Sicurezza Guo Shengkun. In quell’occasione Avramopoulos aveva fatto presente che “i gommoni usati dai network di trafficanti del Mediterraneo sono fabbricati da qualche parte in Cina”, e aveva richiesto a Pechino “il supporto e la cooperazione delle autorità cinesi per rintracciare e smantellare questo business”.

Un passo concreto è stato fatto dal Consiglio degli Affari Esteri dell’UE sulla Libia del 17 luglio scorso, che ha adottato la decisione PESC 2017/1338 che modifica il regolamento UE 2016/44, richiedendo all’art. 1 “un’autorizzazione preventiva per vendere, fornire, trasferire o esportare, direttamente o indirettamente” i gommoni, o altri prodotti che possano risultare utili ai trafficanti, “a qualunque persona, entità o organismo in Libia o per un uso in Libia”.

Una decisione, commenta il colonnista di Bloomberg Leonid Bershidsky, che potrebbe addirittura risultare controproducente, perché a suo dire l’Europa non ha la forza di imporre restrizioni contro un’industria cinese dei gommoni che conta più di 180 produttori. Oltre a danneggiare i pescatori nostrani, la decisione del Consiglio UE non farebbe altro che obbligare i trafficanti a pagare di più per le barche. In questo modo “caricheranno ancora più migranti o riuseranno le barche più volte invece che abbandonarle in alto mare”, con il rischio di provocare ancora più morti.

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