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Vi spiego le perverse tattiche nucleari di Kim Jong-un

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Sono passate da poco le sei del mattino quando nell’isola giapponese di Hokkaido si propaga il terrore. L’incubo antico del fungo nucleare, inciso nella memoria collettiva con la tragedia nazionale di Hiroshima e Nagasaki, si riaffaccia prepotente con il volto di un missile balistico a medio raggio, l’Hwasong-12, scagliato dalla periferia della capitale nordcoreana di Pyongyang. Il vettore percorre a velocità supersonica il tratto di mare che separa la penisola dall’arcipelago, un brivido durato 14 minuti durante i quali l’ordigno sorvola Hokkaido per poi precipitare a 1.170 chilometri più a est. 840 minuti durante i quali l’efficienza nipponica si manifesta in tutta la sua tragica puntualità. Con un sms di allarme recapitato istantaneamente agli abitanti di Hokkaido, con l’ululato delle sirene, le edizioni straordinarie dei telegiornali, l’ordine di alt impartito ai treni superveloci che solcano il paese.

Questo martedì non è stato un giorno come gli altri. L’allerta del mattino scava nella psicologia nazionale la consapevolezza di un pericolo irreversibile. La follia di un solo uomo, che col suo ricatto nucleare tiene in scacco il paese e la superpotenza americana, mette in un angolo la coscienza pacifista del Giappone costringendola a ponderare l’imponderabile. Le parole furiose del capo di governo Shinzo Abe, il leader nazionalista che vuole superare il diktat della Costituzione che pone limiti invalicabili alle capacità dell’esercito giapponese, risuonano nella coscienza popolare turbata e prostrata. Gli occhi a mandorla di un popolo fiero ma domato nelle sue ambizioni dopo lo shock della seconda guerra mondiale sono, ora, puntati su Washington, su quel Pentagono che ha le chiavi della difesa del Paese.

Il trattato americano-giapponese non dovrebbe lasciare dubbi: l’America, in caso di aggressione, schiererà le sue invincibili armate, i suoi bombardieri strategici e le sue corazzate a difesa dell’arcipelago. Ma Shinzo Abe, e quella parte dell’opinione pubblica sensibile alla sua retorica orgogliosa, sanno che potrebbe non bastare. Che gli Stati Uniti, di fronte alla scelta di barattare la propria sicurezza con quella di città separate da un oceano intero, potrebbe voltare le spalle al suo alleato. L’essenza del gioco perverso del Maresciallo Kim Jong-un è proprio questa: seminare, test dopo test, il dubbio, la diffidenza, incertezza e timori, insinuando un cuneo tra Giappone e Stati Uniti. Le rassicurazioni puntuali di Donald Trump e della sua squadra, che ribadiscono di essere al 100% dalla parte del Giappone, potrebbero non essere sufficienti per rimuovere dalla schiena il brivido di una sfida nucleare e missilistica fuori controllo. Non è stato poi lo stesso Trump, in campagna elettorale, a sostenere che Tokyo farebbe bene a fare da sé, procurandosi l’atomica per meglio difendersi dalle intemperanze di Kim?

Gli americani, dal canto loro, fanno i conti. Nel corso di questo 2017, la Nord Corea ha effettuato diciotto test missilistici: più di quelli registrati nell’intera parabola di Kim Jong-il, padre dell’odierno dittatore. Vettori sempre più sofisticati che rendono inesorabilmente più vicino l’obiettivo finale: la capacità di colpire, con un missile intercontinentale, il territorio continentale americano con la potenza devastante dell’atomo. Se fino a poche settimane fa gli analisti parlavano di quattro anni prima che tale eventualità possa materializzarsi, ora la stima è scesa ad un anno, forse di meno. Barack Obama aveva avvertito il suo successore, prima che si insediasse alla Casa Bianca: la principale minaccia strategica che l’America dovrà affrontare si trova a Pyongyang. Donald Trump l’ha capito, ma è a corto di opzioni. Al bastone delle dichiarazioni bellicose – fire and fury, tutte le opzioni sono sul tavolo – è costretto ad alternare la carota di proposte negoziali.

Rinuncerà, il Maresciallo, al suo arsenale devastante in cambio di un riconoscimento internazionale, e del venir meno delle sanzioni elevate dalle impotenti Nazioni Unite? Molti pensano, e sperano, che è questo ciò che Kim vuole. Scommettono sulla ragionevolezza di cui è dotata ogni leadership che si rispetti. Ma è una scommessa rischiosa, che gli abitanti di Hokkaido e delle altre isole nipponiche sanno che si gioca sulla loro pelle. La sfida, ora, è capire quali in anticipo quali saranno le prossime mosse del Nord, per meglio prevenirle. È una partita che si gioca però con le regole dettate dal capo del governo più impenetrabile del pianeta, dal quale non traspare nemmeno il più innocuo dei dettagli: il nome, per non parlare del sesso, del terzogenito del Maresciallo, nato pochi giorni fa. Il figlio di un’era in cui niente è più scontato, nemmeno che in Giappone tornino a contarsi le vittime dell’ordigno più devastante che l’umanità abbia mai concepito.


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