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Brexit e non solo, ecco le ultime capriole di Corbyn

La Gran Bretagna sta giocando il terzo tempo della sua partita sulla Brexit. Il cronometro scorre e la tensione si sente. Soprattutto ora che sembra che il campo di gioco sia stato trasferito da Bruxelles a Westminster. Se ieri Unione Europea e governo londinese si sono seduti ai lati opposti del tavolo tirando la fune a muso duro e con pochi passettini in avanti, è a Londra che l’orizzonte politico cambia inaspettatamente in un clima nevrotico.

Ad accendere la miccia delle polemiche è stato l’annuncio a sorpresa del partito di Corbyn che ha fatto una netta inversione a U sognando, improvvisamente, di imboccare al volo la direzione vincente – ci credono davvero? – di una Brexit ‘morbida’. Il Labour ha dichiarato che la Gran Bretagna dovrebbe restare sia nel mercato unico che nell’unione doganale anche dopo la scadenza di Brexit – marzo 2019 – per evitare contraccolpi sull’economia. Secondo quanto riferito dalla Bbc, per i labour, infatti, il piano dei conservatori è “non necessario” e “molto rischioso”.

Corbyn dopo una intera campagna elettorale ondivaga sulla Brexit ha così deciso, senza apparente preavviso, di prendere le distanze dal risultato del referendum di giugno 2016. Una inversione che risulta sospetta per il partito della sinistra inglese che con la ‘primula rossa Corbyn’ aveva corteggiato le politiche protezionistiche piegandosi persino alle ragioni dell’Ukip e che ora pretende un mercato del lavoro libero da barriere – niente di nuovo rispetto a quello che c’è ora, insomma. Un Corbyn, dunque, alleato del mondo del business: il desiderio di restare nel mercato unico e nell’unione doganale è quanto richiede la Confindustria britannica.

Ma, assodato che nonostante i meteo-economisti della Brexit avessero previsto svariati uragani sulla salute economica e finanziaria degli inglesi, la Gran Bretagna oggi gode di una crescita costante dell’economia e un tasso di disoccupazione al minimo storico, esattamente dal 1975, la nuova versione di Jeremy Corbyn a proposito di Brexit suona quanto mai ipocrita. Persino un tantino grottesca. Il laburista, tanto,troppo a sinistra, che veste le nuove posizioni sposando la preoccupazione per i posti di lavoro e l’economia, smaschera, infatti, un piano politico ben calcolato, e che tradisce tutto quello in cui ha creduto fino ad ora.

Corbyn è quello che nel 1975 ha votato contro l’adesione britannica all’Ue e che dieci anni dopo si è opposto all’introduzione del mercato unico. Un euroscettico da sempre e che tutto d’un tratto sconfessa se stesso, ma dimostra, al contempo, il perché di una campagna elettorale in cui il capitolo Brexit, casualmente, non veniva mai letto fino in fondo. Solo un mese fa il leader dei laburisti al The Andrew Marr Show prometteva che avrebbe portato il Regno Unito fuori dal mercato unico, e adesso? Una presa di posizione che in un altro momento storico si sarebbe potuta ignorare, ma non adesso. La tempistica sembra quella di un furbo politicante. Resta da capire fino a che punto però.

È una coincidenza che Tony Blair, che nell’ombra tesse la trama di un partito anti-Brexit, incontrerà il presidente della Comunità europea Jean-Claude Juncker proprio questa settimana? Corbyn sta approfittando del vuoto creato dalla titubanza di May. Nei fatti certo, non in quelle dichiarazioni che avevano fatto sognare la destra inglese. Ve le ricordate “Brexit significa Brexit” e “nessun accordo è meglio di un cattivo accordo”, e giù di lì? Ma in fin dei conti, tredici mesi di retorica, per quanto dura, non possono cambiare il corso della storia.

Non c’è stata alcuna corrispondenza tra quelle esortazioni e le decisioni politiche che oggi avrebbero dovuto cambiare almeno un po’ il volto della Ue. Bisognava decidere tra una “partenza pulita” dall’Ue e una, invece, capace di lasciare intatte le relazioni commerciali inglesi. Per partenza pulita i conservatori intendono il riprendersi il 100% del controllo delle loro leggi e delle frontiere: esattamente quello per cui la maggioranza dei britannici ha votato al referendum! Ma la City e le imprese dal primo istante hanno lanciato il monito di una uscita ‘hard’ nefasta che non avrebbe fatto altro che danneggiare i rapporti commerciali con l’Ue e una conseguente perdita dei posti di lavoro. Chiedendo, in sostanza, di continuare ad essere soggetti alle norme dei tribunali europei.

Il peccato originale di May, così, è stata l’incapacità di trovare un’alternativa alle due visioni contrastanti, o quanto meno una visione conciliante. Il che ha diviso, dall’interno, il suo stesso partito, lasciando che la voce fuori dal coro più autorevole e intransigente contro il piccolo fronte dei remain degli stessi tory continuasse a essere quella di Boris Johnson, sostenuto da tanti attivisti e deputati conservatori, ma soprattutto dalla maggioranza del Paese.

May adesso è incastrata tra i due fronti, e il tempo sul cronometro della sua partita più importante scorre inesorabile. E soprattutto ora che Corbyn si è messo a giocare in squadra con quelli di Bruxelles e la loro “soft Brexit”, una nuova strategia risulta fondamentale. Uscire dall’angolo e decidere se stare con Boris Johnson e i 17,4 milioni di persone che hanno votato per la Brexit o con Jeremy Corbyn? Quindi decidere se mettersi contro gli elettori e una grossa fetta del suo partito o il mondo della City.

E mentre impazza la polemica sul super stipendio del capo negoziatore della Ue, che pare guadagni 72.000 sterline in più rispetto al suo omologo inglese, arrivano nuove indiscrezioni, smentite a metà, e che vogliono una May che ha già fissato la data in cui lascerà il numero 10 di Downing Street, il 30 agosto 2019. Giusto il tempo di portare la sua Gran Bretagna fuori dalla Ue. Come? Lo scopriremo a breve.

Intanto sull’edizione odierna di Le Monde il capo negoziatore per la Ue, Michel Barnier, ha minacciato la Gran Bretagna del rischio ritrovarsi anche più esposta al terrorismo dopo la Brexit, ma non sarà mica vero il contrario?



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