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Come e perché Delrio ha toppato con il codice degli appalti

Graziano Delrio

Non farebbe conto di occuparsene, ma il lamento del ministro delle infrastrutture Graziano Delrio, l’endocrinologo reggiano dedicatosi alla politica, rappresenta l’ennesima prova di una responsabilità politica affrontata senza la minima consapevolezza dell’importanza dei temi trattati né la minima capacità di autocritica.

Non che sia solo, il dottor Delrio, visto che il medesimo ex presidente del consiglio Matteo Renzi, nel suo libro (una summa di narcisistica autocelebrazione senza una riflessione sugli errori commessi nella scelta degli uomini, e delle donne, nelle decisioni politiche, nei testi parlamentari, nella comunicazione, solo sulla scuola, Renzi ammette di non avere ancora capito dove e come avrebbe sbagliato), non lo assolve per tutta la serie di sciocchezze prospettate al Paese.

Il lamento cui ci riferiamo riguarda la massa dei ricorsi al Tar che paralizzano l’affidamento dei lavori (con conseguente blocco di investimenti già deliberati).

A questa patologia, Delrio propone una terapia d’urto: l’accelerazione degli appalti e della consegna dei lavori in modo che i Tar si trovino davanti ai fatti compiuti di lavori già in esecuzione.

Una terapia da analfabeta del diritto amministrativo (il che non deve stupire: chi parla è endocrinologo), che tuttavia non attinge informazioni da chi è competente.

Chiarisco.

La questione è la massa di ricorsi che le imprese presentano nei confronti degli appalti pubblici. La cosiddetta «litigiosità», in realtà, trova fondamento nelle imperfezioni tecniche del codice degli appalti e sull’impianto dello stesso (con buona pace di Raffaele Cantone, capo dell’Anticorruzione, che vi ha messo mano –con altri-). Ripetiamo la nostra tesi: la corruzione (negli appalti) e l’efficienza (degli stessi) si realizza, non col codice penale, ma col diritto amministrativo mediante la riduzione drastica dei margini di discrezionalità dei responsabili dei procedimenti. Laddove sono previsti giudizi qualitativi, là si insedia il germe della discrezionalità e della corruzione. E, come sanno i semiologi, ogni giudizio è opinabile e può generare il contenzioso, il ricorso cioè a un giudice terzo che stabilisca la legittimità (amministrativa) di un procedimento, di una decisione.

Il codice degli appalti, oltre a prevedere troppi adempimenti dalla dubbia utilità, lascia ampio campo ai giudizi qualitativi. Il demone che domina come un’ossessione gli autori del codice medesimo è il «massimo ribasso», il sistema normale nella fisiologia dei tender internazionali. Il modo più trasparente e meno contestabile mai inventato dell’uomo. A due condizioni: che l’Amministrazione rediga progetti esecutivi, effettivamente esecutivi; che i concorrenti che operano in regime di massimo ribasso presentino (come accade nel mondo) una fideiussione che copra l’intero valore dell’opera in appalto.

La terapia prospettata da Delrio è autolesionistica: se si affrettano gli affidamenti e gli inizi dei lavori, ciò non determinerà l’esclusione della giurisdizione dei Tar.

Anzi i Tar decideranno magari una sospensione, a lavori iniziati, con gravi questioni di indennizzi a chi risulterà sacrificato dalle future sentenze. Poiché «chi nasce tondo non diventa quadro», c’è un unico suggerimento per il ministro: si faccia seguire e consigliare da un avvocato dello Stato. Il numero e la gravità delle cose che dirà, quindi (comprensibili ai tanti addetti del settore), saranno meno destabilizzanti di quando accade ora.

(Pubblicato su Italia Oggi, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)


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