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Il dollaro, da porto sicuro a ultima spiaggia?

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C’è un aspetto di questa estate a cui unicamente pochi specialisti sembrano dare attenzione: come sta mutando il ruolo del dollaro Usa nella finanza (e, quindi, nell’economia reale) internazionale e quali sono le determinanti del cambiamento. In breve, una delle funzioni principali del dollaro Usa (che è pur sempre la moneta più impiegata nella transazioni commerciali internazionale), sta passando di quello di essere l’ultimo porto sicuro (specialmente in momenti di burrasca finanziaria) all’ultima spiaggia. L’ultima spiaggia dà sempre maggiore sicurezza di stare su una zattera in mano aperto, ma non ha stesse qualità di un porto al riparo da tempeste e maree. Anche l’ultima spiaggia è travolta da uno tsumani, o più semplicemente da una mareggiata un po’ forte. Viene, inoltre, spesso erosa dal mare.

L’economia americana sta viaggiando bene ad un saggio che sfiora il 2,5% secondo il gruppo del “consensus” (venti istituti privati di ricerca econometrica previsionale, tutti privati ed indipendenti da Governi); l’anno prossimo l’aumento del Pil potrebbe arrivare al 3%, anche se non viene realizzato il piano straordinario di investimenti pubblici annunciato dall’attuale Presidente durante la campagna elettorale. Da alcuni mesi il tasso di disoccupazione pare assestato al 4% della forza di lavoro, molto prossimo quindi a quel 3% che in gran parte dei testi di economia viene considerata “piena occupazione”, il tasso di aumento dei prezzi al consumo supera di poco il 2% l’anno, il disavanzo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti è pari al 2,5% del Pil. L’insieme di questi dati indica un’economia sana, che ha superato la crisi iniziata nel 2008 e si sta rafforzando.

Ciò dovrebbe implicare un apprezzamento del dollaro. Invece, dall’inizio del 2017 il dollaro si è deprezzato dell’8% rispetto al paniere delle maggiori monete in uso nel commercio internazionale e ben dell’11% rispetto all’euro di un’unione monetaria europeo spesso mostrata come litigiosa ed ancora in travaglio (sono pochi i Paesi il cui Pil è tornato ai livelli del 2008). Inoltre, basta scorrere i rapporti della Banca per i Regolamenti Internazionali per accorgersi che i flussi di capitali da luoghi dove ci sono tensioni ma c’è anche ricchezza, non corrono più verso il porto sicuro dei mercati finanziari americani.

Quale è la spiegazione? Se si guarda in profondità , ci si accorge che il declino del valore del dollaro rispetto all’euro (e non solo) non è stato lineare ma a balzi, connessi ad avvenimenti politici. Negli ultimi mesi, ad esempio, il deprezzamento del dollaro è stato particolarmente acuto in tre momenti: quando l’Arabia Saudita (lo scorso giugno) ed altri Paesi del Golfo Persico hanno imposto un embargo nei confronti del Qatar, quando (in luglio) il Presidente della Federazione Russa, Putin, ha messo alla porta 755 addetti di ambasciate e consolati americani e quando (negli ultimi quindici-venti giorni) si è aggravata la crisi con la Corea del Nord. Paradossalmente, in passato, avvenimenti del genere avrebbe spinto capitali verso il “porto sicuro” degli Usa. E ci sarebbe stato un apprezzamento del dollaro.

Perché si sta verificando il contrario? Numerosi osservatori – da Jeremy Cook di World First una “boutique finanziaria britannica” specializzata in valute estere a Adam Posen, Presidente del Peterson Institute for International Economics – ritengono che lo “stile” della Presidenza Trump, prima ancora della sostanza, contenga semi di rischio per gli operatori; indubbiamente, il vasto numero di nomine, licenziamenti e nuove nomine, la prassi di comunicare per tweet spesso smentendo le stesse istituzione che più prossime dovrebbero essere alla Casa Bianca e più dovrebbero essere dotate di dati e di analisi, l’impressione (vera o falsa) di cambiamenti “umorali” di politiche, strategie, programmi e misure aumentano il senso di rischio.

In passato, questi aspetti sono stati esaminati per quanto riguarda l’Italia da Massimo Tivegna e Grazia Chiodi in “News e dinamica dei tassi di cambio” (il Mulino 2001) alla serie di tre libri collettanei della Scuola Nazionale d’Amministrazione (2003-2005) su news e, rispettivamente, mercato del lavoro, e-Government nelle Pa e prezzi negli di transizione dalla lira all’euro (oltre a numerosi altri apporti scientifici). Sono le “news” che provengono dalle reazioni della Casa Bianca (e dintorni) ad innervosire i mercati sul ruolo del dollaro ed a far scendere quest’ultimo (rispetto alle altre monete) proprio mentre i dati economici suggeriscono che dovrebbe aumentare di valore. Sarebbe bene che dato che gli studi pionieristici tra news e tassi di cambio sono stati fatti essenzialmente negli Stati Uniti, qualcuno lo spiegasse a 1600 Pennsylvania Ave., N.W., l’indirizzo della Casa Bianca. Non credo che ci sia una politica implicita di stimolare il deprezzamento del dollaro in un’economia prossima al pieno impiego.

C’è, però, un altro elemento, di economia reale. Lo sottolinea l’ex Vice Presidente della Banca Mondiale, Ian Goldin; giorno dopo giorno appare chiaro che “il potenziale di un programma massiccio di investimenti e di profonda riforma del sistema tributario” (americano) si sta allontanando sempre di più. I tweet fanno male a chi ne manda troppi.



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