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Ecco inerzie e omissioni occidentali nel combattere il terrorismo islamico

Ci sono due motivi per cui è inutile lamentarsi se il terrorismo islamico ci colpisce in casa. Il primo è elementare. Il genio del fanatismo, quello per cui noi occidentali siamo corrotti e decadenti mentre loro sono destinati a travolgerci con le loro convinzioni granitiche e con una sequenza di colpi mortali, è ormai uscito dalla bottiglia. Non saranno i fatui proclami dei nostri politici a dissuadere i commando della morte che si coagulano dentro e fuori i nostri confini.

Ci vorranno decenni, forse più, per prosciugare la palude del risentimento e della revanche, per sconfiggere le idee bacate nutrite da un esercito di estremisti persuasi di avere la storia dalla loro parte. Sarà necessario un immane sforzo, di tipo culturale ed educativo anzitutto, per riportare alla realtà tutti coloro che osteggiano le grandi conquiste della modernità illuminista, secolare e democratica. Sarà un lavoro impegnativo e certosino, considerato che il mondo mediorientale è ancora preda di scontri tribali e primordiali, che i diritti più elementari dei popoli e degli individui faticano ad affermarvisi e che, in questo brodo incandescente, valgono ancora la legge della sopraffazione e le regole della violenza indiscriminata.

Questo è il primo motivo. Il secondo è più appariscente ma difficile da ammettere. È un dato di fatto che noi occidentali non sappiamo riconoscere i nostri nemici, tanto meno vogliamo combatterli. Lo Stati islamico ci ha dichiarato guerra nel 2014, quando ha fondato il suo califfato giurando che avrebbe sbaragliato ogni forza che si opponesse al suo macabro ma travolgente progetto rivoluzionario.

Come abbiamo risposto noi, a questa sfida mortale? Formando una possente coalizione internazionale, formata da più di 60 paesi, buona parte dei quali però non spara un solo colpo e delega ai soliti americani e alle raccogliticce forze locali il lavoro sporco. Spagnoli e italiani, ad esempio, hanno schierato qualche centinaio di soldati affidando loro il compito di… addestrare i colleghi iracheni. Armiamoci e partite.

D’altro canto, noi anime belle, pronipoti di Kant e figli dei figli dei fiori, la guerra l’abbiamo da tempo bandita dai nostri lindi e ottusi orizzonti mentali. Col risultato che gli altri la guerra la dichiarano tranquillamente contro di noi, e noi rispondiamo schierando il nostro repertorio arcobaleno e tutt’al più qualche cacciabombardiere, incaricandolo di compiere dall’alto, a distanza di sicurezza, incursioni che possono al massimo scalfire la forza del nemico, ma non travolgerla.

Il risultato di questo atteggiamento pavido e inconcludente è sotto gli occhi di tutti: l’Isis è oggi indebolito (grazie a curdi e iracheni, non a noi) ma ancora in piedi, soprattutto con la sua macchina della propaganda pienamente funzionante che incita a spron battuto affiliati e simpatizzanti a spargere il nostro sangue nelle nostre città. Per cui, è l’inesorabile conclusione, non lamentiamoci o protestiamo se, di tanto in tanto, le promesse che lo Stato islamico ci fa vengono mantenute. La colpa non è nostra, ovviamente, ma parte della responsabilità ricade sulle nostre spalle. Sulle spalle di una civiltà fiaccata dalla perversione del politicamente corretto che ci impedisce di chiamare le cose col loro nome – nemici, guerra – e di prendere adeguate contromisure. Il flagello dell’estremismo islamico deve essere riconosciuto come tale e, quando necessario, ed è necessario, combattuto con la forza delle armi oltre che con l’etica della convinzione.

Temo che altri innocenti dovranno perire prima che capiamo la lezione.

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