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Le vere mire dell’Iran sul nucleare (e cosa si dice nell’amministrazione Trump su Rouhani)

Iran

Oggi tutte le nostre attenzioni e paure sono concentrate su Pyongyang, sul programma nucleare e missilistico della Corea del Nord che minaccia Giappone, Corea del Sud, ma anche il territorio degli Stati Uniti. Ma gli errori diplomatici e strategici che ci hanno portato all’impasse attuale con il regime nordcoreano si stanno già ripetendo con l’Iran. Tra qualche anno potremmo ritrovarci nella stessa situazione con un Iran atomico, ma nella polveriera mediorentale, dove anche Israele dispone di testate nucleari e altri regimi, avversari di Teheran, come Egitto e Arabia Saudita, vorranno possederne. E’ un rischio concreto per Emanuele Ottolenghi, esperto di Iran e politica mediorentale, senior fellow della Foundation for Defense of Democracies. In una recente intervista a Radio Radicale avverte che l’accordo nucleare con l’Iran voluto dall’ex presidente americano Obama “non fa altro che ritardare di qualche anno il momento della crisi, permettendo però a Teheran di arrivarci in una situazione tecnologica, industriale, economica e politica molto più favorevole di quella di oggi. Non è un buon accordo. Sostanzialmente infatti – spiega ancora Ottolenghi – permette a Teheran di mantenere un programma nucleare di dimensioni industriali, di modernizzare la sua tecnologia, accedere a tecnologica occidentale, inviando i propri scienziati a studiare nelle nostre università e a cooperare con i nostri scienziati. In pratica, permette all’Iran, da qui al 2030, di poter produrre con grande rapidità armi nucleari e non fa nulla per rallentare, ostacolare o bloccare il programma missilistico, elemento fondamentale di ogni programma di armi nucleari e non convenzionali”. Dunque, avverte, “se il regime di Teheran non cambia natura, e non diventa una forza di stabilità, benevola nei confronti dei propri cittadini e rispettosa della sovranità degli stati della regione – cosa impossibile data la natura rivoluzionaria di questo regime – entro la fine dell’accordo ci troveremo di fronte un Iran capace di costruire testate e lanciare un attacco nucleare in poche settimane. E ad avere questa capacità sarebbe un Iran legato a un’ideologia totalitaria, intollerante e dedita allo sconvolgimento dell’ordine regionale a suo favore”.

Ma qualcosa si muove, il dibattito su cosa fare è aperto all’interno dell’amministrazione Trump, che ha annunciato una profonda revisione di tutta la politica americana nei confronti dell’Iran. Anche se la revisione non è conclusa e questa nuova politica “non è completamente definita e consolidata”, Ottolenghi vede già “forti segnali che indicano un cambiamento molto radicale”, come lo strumento delle sanzioni usato “in modo robusto contro il programma missilistico iraniano, criticando fortemente la posizione di Obama, che ha separato il problema del programma missilistico da quello nucleare, di fatto sdoganandolo e annacquando le sanzioni Onu”.

Una delle questioni centrali, ovviamente, che sta ritardando la conclusione della review, è se abbandonare o meno l’accordo sul nucleare. “Il rischio di abbandonarlo oggi – osserva Ottolenghi – è che senza una buona causa gli Stati Uniti si troverebbero soli ad affrontare l’Iran, con gli alleati europei più propensi a non assecondare questa politica. Se Washington vuole rivedere, rivisitare, rinegoziare, deve farlo sulla base della cooperazione con gli alleati europei”. All’interno dell’amministrazione ci sono due scuole di pensiero: “Chi pensa che l’accordo non sia buono, ma se deve crollare meglio che sia colpa degli iraniani, quindi va applicato ma in modo più rigoroso e puntiglioso; e chi pensa che sia svantaggioso per gli interessi strategici americani, quindi meglio farlo saltare adesso piuttosto che tra 8-10 anni”. A ottobre dunque, quando preparerà il suo rapporto per il Congresso sull’adempienza o meno dell’accordo da parte iraniana, l’amministrazione Trump potrebbe affermare che Teheran non sta rispettando gli impegni.

Anche in Siria gli Stati Uniti si stanno confrontando per la prima volta, sia pure indirettamente, con l’Iran. Nelle ultime settimane ci sono stati scontri e tensioni sul terreno con milizie pro-iraniane e forze di Assad (senza dimenticare il raid missilistico contro la base aerea siriana da cui è partito un attacco con armi chimiche), ma secondo Ottolenghi “più per motivi tattici che non per una nuova strategia”. Sulla Siria vede dei disaccordi all’interno dell’amministrazione. D’altra parte, gli obiettivi sono “abbastanza contraddittori”: da un lato il presidente Trump “non vuole che si trasformi in un nuovo intervento militare, dall’altro sempre di più si trova a dispiegare forze non solo aeree ma anche di terra per proteggere milizie alleate e propri assetti. Vorrebbe concentrarsi sulla lotta all’Isis, e preferirebbe non trovarsi in uno scontro diretto con gli iraniani. L’amministrazione Usa non vede di buon occhio la crescente influenza e presenza russa, ma la considera forse il male minore. Mentre gli israeliani non vedono di buon occhio né la presenza degli iraniani sulle alture del Golan e in Siria, né la presenza permanente dei russi, che faciliterebbe le attività iraniane che comprendono il riarmo pesante di Hezbollah”. Quando su uno scacchiere complesso come quello siriano ci sono tutti questi pezzi, è “difficile trovare una politica coerente”.

Secondo Ottolenghi il massimo della cooperazione che l’amministrazione Trump potrà avere con Mosca in Siria consiste nei meccanismi di “deconfliction”, canali di comunicazione tra forze militari per evitare incidenti. “Non ci dovremmo illudere – avverte Ottolenghi – che Putin riconosca il ruolo pernicioso e destabilizzatore dell’Iran. A Putin interessano due cose: ristabilire l’influenza e la presenza militare, politica ed economica permanente della Russia in Medio Oriente, con accesso al Mediterraneo; e ridurre l’influenza e la forza americana nella regione. E l’Iran offre una sponda per entrambe le cose. Anche se l’Iran gioca un ruolo importante nella diffusione dell’estremismo islamico in tutto il mondo, con le sue attività di esportazione della rivoluzione islamica, Putin non vede il radicalismo sciita come una minaccia per la Russia, è più preoccupato del radicalismo sunnita. Quello che fa Teheran non preoccupa Mosca, lo vede come un fastidio per gli occidentali, il che è un beneficio per i russi”.

E’ per contenere Teheran che l’amministrazione Trump ha impresso una svolta alla sua politica mediorientale, tornando ai suoi tradizionali alleati, Israele e i Paesi arabi sunniti, come Egitto e Arabia Saudita, che tuttavia resta uno dei regimi più retrivi e ambigui riguardo il finanziamento dell’estremismo islamico. Molti si chiedono perché gli Stati Uniti, e l’Occidente, dovrebbero preferire l’alleanza con i sauditi ad un disgelo dei rapporti con Teheran. Ottolenghi non ha dubbi: la differenza fondamentale, sottolinea, è che “l’Arabia saudita promuove e sostiene la stabilità e continuità dell’ordine regionale, mentre l’Iran promuove e sostiene la sua sovversione. La visione dell’ordine regionale a Riad è sostanzialmente allineata con quella dell’Occidente, quella di Teheran è opposta”. Ottolenghi cita come esempio il diverso approccio sul processo di pace tra palestinesi e israeliani e ricorda che “dal 2002 esiste, pur con i suoi difetti e le sue mancanze, un piano di pace saudita, con la disponibilità esplicita, annunciata e più volte riaffermata, dei sauditi e della Lega araba, a stabilire relazioni diplomatiche complete e a fare la pace con Israele sulla base di un accordo con i palestinesi. Viceversa, l’Iran sostiene movimenti contrari a ogni accordo e compromesso, continua a promuovere la distruzione di Israele, a sostenere il terrorismo, a diffondere odio e propaganda estremista e radicale, con lo scopo di non favorire una risoluzione del conflitto e di mantenerlo in perpetuo, o risolverlo con la distruzione di Israele”. “Una differenza fondamentale – conclude Ottolenghi – che dimostra come l’Iran, a dispetto della sua immagine di Stato relativamente meno radicale rispetto al radicalismo sunnita propugnato da wahabisti, rimanga una forza sovversiva nella regione, che contrasta e mira a danneggiare gli interessi strategici dell’Occidente. Per questo, con tutti i loro difetti, i sauditi restano un alleato migliore e più affidabile rispetto a Teheran. Anche se ciò ovviamente non significa che il problema saudita non meriti di essere affrontato”.

Sui motivi che hanno portato alla recente rottura tra il Qatar e gli altri paesi del Golfo, il prof. Ottolenghi premette che “il Qatar non è un Paese. E’ una famiglia regnante che possiede una penisola e il più grande giacimento di gas naturale al mondo”, i cui proventi usa per portare avanti “una politica assolutamente spericolata e irresponsabile, pensando di essere una superpotenza quando è invece un piccolo Paese con qualche decina di migliaia di abitanti”. Il problema è che da anni Doha “sta facendo di tutto per allinearsi con l’Iran e sostiene gli elementi più biechi e fondamentalisti del radicalismo sunnita nella regione, diffondendo messaggi sediziosi e non obiettivi attraverso al Jazeera, pur mantenendo allo stesso tempo una base americana, investendo e comprando influenze e favori nelle economie occidentali”. Per questo motivo, spiega, “si è fatto una serie di nemici nella situazione caotica e nella fragilità dell’equilibrio regionale provocate dalla politica di Obama. Dopo l’accordo con l’Iran sul nucleare e il ritiro dell’influenza americana dalla regione gli altri paesi si sono visti costretti a prendere l’iniziativa”. Cosa accadrà ora? Secondo Ottolenghi, “se il Qatar vuole evitare conseguenze peggiori, e non vedere la fine della sua casa regnante sotto la spinta saudita, deve riallinearsi agli altri paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, deve decidere se vuole stare con le forze sunnite moderate o con quelle radicali, con gli elementi che favoriscono la stabilità, l’ordine esistente e l’alleanza con l’America, o se allinearsi con l’Iran. Non può fare tutte queste cose insieme”.

Una delle colpe imputate a Doha è il sostegno ai Fratelli musulmani, ma Ottolenghi fa notare che in realtà sponsorizza anche l’Isis. Tuttavia, spiega, “da un punto di vista del radicalismo islamico, sia per come si manifesta nei confronti degli altri musulmani, sia per come si diffonde in Occidente e vede il mondo non islamico, la differenza tra wahabiti e Fratelli musulmani è come quella tra stalinisti e trotzkisti. Importante da un punto di vista ideologico e dottrinario, ma entrambi rami di un unico movimento islamico antioccidentale, intollerante, illiberale e totalitario”. Si tratta di “sfaccettature di un unico nemico che minaccia la continuità delle società aperte, il libero commercio fra nazioni, il traffico aereo, lo scambio di persone e merci, tutti elementi che favoriscono la globalizzazione, la diffusione della prosperità, la cooperazione internazionale e il rispetto e la tolleranza tra culture e modi di vivere diversi. Differenze irrilevanti da un nostro punto di vista e così dovremmo trattarle”, conclude Ottolenghi.


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