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Lytton Strachey e Virginia Woolf

Woolf

“Al momento sono quasi morto di stanchezza a causa della tremenda lotta con la vecchia megera”, confessava Lytton Strachey a Roger Senhouse il 19 aprile 1928. La vecchia megera era Elisabetta I, salita sul trono d’Inghilterra nel 1558. Il primo giovedì di maggio la lotta era giunta al termine. Dopo aver lasciato il dattiloscritto intitolato Elizabeth and Essex: a tragic history nell’ufficio londinese dell’editore Chatto&Windus, Lytton poteva tornare a piedi verso Bloomsbury. Era di nuovo libero.Tutto era cominciato il 17 dicembre 1925. Sei mesi di lento lavoro, poi una vacanza con la sorella Pippa a Parigi, dove “la grande, eccitante, avvincente notizia -ironizzava in una lettera a Ottoline Morrell – era che Cocteau… si era convertito al cattolicesimo. Al confronto, il crollo del franco non era nulla”. Così per altri due anni: lunghe pause e molti viaggi, con una sosta anche a Roma. La stesura, molto più di quanto gli era accaduto per Queen Victoria, lo coinvolgeva emotivamente. Si mescolava con i ricordi degli amori passati e con le infatuazioni del momento. Superati i frequenti sbalzi d’umore, riusciva a bruciare tutte le sue energie in una scrittura febbrile.

Lytton aveva dedicato il libro a suo fratello James e a Alix Sargant-Florence, provetti traduttori di Freud. Ancora nel 1923 definiva la psicoanalisi una “ridicola frode”. Poi aveva cambiato opinione, e con lui il gruppo di Bloomsbury. Per Virginia Woolf, tuttavia, proprio l’eccesso di sottintesi inconsci facevano di Elizabeth and Essex un prodotto superficiale e artefatto. In un saggio sull’arte della biografia (1939), sosterrà che essa “è la più ristretta di tutte le arti, e che se il romanziere è libero, il biografo è vincolato […]. In Elizabeth – concludeva – [Lytton] trattò la biografia come un’arte; disprezzò i suoi limiti”. Ma quello che per la Woolf era un fiasco culturale, si rivelò nel giro di qualche settimana uno straordinario successo editoriale: centodiecimila copie vendute in Gran Bretagna e oltre centocinquantamila negli Stati Uniti. Nonostante il favore del pubblico, la critica letteraria anglosassone considerava Lytton un autore minore. In Italia, Emilio Cecchi lo ha rivalutato come uno dei massimi prosatori del Novecento, capace di ripristinare l’antica dignità classica della biografia.

Confesso che la lettura di Elisabetta e il conte di Essex (Castelvecchi, 2014), ha rinfocolato la mia lontana predilezione per la biografia. Essa nasce sui banchi di scuola, dall’incontro con le Vite parallele di Plutarco. L’origine del genere biografico si può datare all’inizio del IV secolo a.C., quando Isocrate compone Evagora e Senofonte Agesilao. Allo stesso periodo risale la distinzione tra biografia “peripatetica” e biografia “alessandrina”. Entrambe con esplicite finalità apologetiche, la prima privilegiava le vite di governanti e condottieri, la seconda le vite di dotti (il maggior esempio è il De viribus illustris di Svetonio). Nel I secolo d.C. Plutarco rivoluziona i due modelli, separandoli dalla letteratura encomiastica. La biografia diventa così rappresentazione dei vizi e delle virtù dell’uomo. “Non scrivo delle opere di storia, ma delle vite”, dichiara l’erudito di Cheronea nel proemio alle biografie di Alessandro e Cesare. “Spesso – aggiunge – un breve fatto, una frase, uno scherzo, rivelano il carattere dell’individuo più di quanto non facciano le battaglie”. Il gusto per il particolare aneddotico ha molta parte nella biografia plutarchea, anche se non sovrasta il nucleo essenziale di valori etici su cui viene costruito il carattere del protagonista.

Come ha sottolineato la storica Monica Rebeschini (Acta Histriae, 2006), mentre i positivisti non misconoscevano le potenzialità pedagogiche della biografia, la stagione dello storicismo – di matrice idealista o marxista – le demolisce: tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento l’attenzione viene interamente spostata sui grandi processi storici. Secondo Benedetto Croce, “L’individuo è pensato e giudicato solo nell’opera che è sua e insieme non sua, che egli fa e che lo oltrepassa” (La storia come pensiero e azione, Laterza, 1954). Altrettanto autorevoli, tuttavia, sono state le voci favorevoli alla biografia: lo svizzero Jakob Burckardt la celebra addirittura come una delle più importanti scoperte del Rinascimento italiano. Mentre Arnaldo Momigliano sarà il primo a interrogarsi – in un ciclo di lezioni tenuto alla Harward University nel 1968 – sul rapporto ambiguo che lega il genere biografico alla storiografia, senza tuttavia negare sua legittimità e la sua autonomia nella ricerca sociale (Lo sviluppo della biografia greca, Einaudi, 1971).

In Europa il genere biografico conosce una apprezzabile fioritura nei decenni terminali del “secolo breve”, complici la disgregazione dell’impero sovietico, la fine del mondo bipolare, la crisi delle ideologie di massa, i travagli della transizione postcomunista. Crollano le antiche certezze sulla dimensione teleologica della storia, già messe a dura prova dalla Shoah e dal rischio di una guerra nucleare. Emergono atteggiamenti più cauti e disincantati, forme meno ambiziose e meno totalizzanti di comprensione degli eventi storici. Il genere biografico acquista così una rinnovata vitalità. Già nel 1986 Pierre Bourdieau aveva denunciato l’assurdo scientifico costituito dall’opposizione netta tra individuo e società (L’illusion biographique). Mentre nel 1989 Jacques Le Goff, sul periodico Le Débat, definirà la biografia come un “indispensabile strumento d’analisi delle strutture sociali e dei comportamenti collettivi”. Nello stesso anno, un numero delle Annales si apriva con un intervento di Giovanni Levi sull’utilità della biografia nelle scienze sociali.

Del resto, gli stessi fondatori della rivista, Marc Bloch e Lucien Febvre, erano piuttosto cauti di fronte alle pretese prevaricatrici della “storia delle strutture” (istituzionali, economiche, demografiche) sulla “storia degli uomini”. Non fortuitamente, si deve proprio a Febvre una superba biografia di Lutero (1928). Questo mutamento di clima si rispecchia in modo esemplare nel percorso intellettuale di Ian Kershaw, uno dei maggiori studiosi del Terzo Reich. Lo storico inglese, di formazione strutturalista, approda alla stesura di una biografia di Hitler (uscita nel 1998) spinto dall’insopprimibile bisogno – come confessa nella prefazione – di “approfondire la riflessione sull’uomo che fu fulcro indispensabile e centro ispiratore” del regime nazista (Hitler, 2 voll., Bompiani, 2003). Servendosi del concetto weberiano di carisma per spiegare sia l’autorità assoluta del dittatore sia il gregarismo del popolo tedesco, il professore dell’università di Sheffield tratteggia un profilo del Führer che – come egli stesso ammette – si risolve in definitiva nella “storia del suo potere”.

Già, ma cos’è il potere? A questa domanda sono state date le risposte più varie, ma forse del potere non vediamo mai il vero volto, bensì soltanto la sua immagine riflessa nello specchio della storia, della lotta per la sua conquista. D’altronde, l’idea che il potere vero stia “altrove”, che sia invisibile e remoto ancorché influentissimo, non è ancora oggi largamente diffusa?


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