(Articolo ripreso da www.graffidamato.com)
In via di principio – che è molto, sia chiaro, ma non tutto quando si sale in cattedra e si giudica – il direttore de Il Fatto Quotidiano ha ragione da vendere quando attacca pure lui, come la destra o il centrodestra che fu o forse tornerà, la presidente di sinistra della Camera Laura Boldrini. Che non è rimasta politicamente neutrale di fronte alle polemiche sul codice di condotta finalmente imposto dal governo ai volontari impegnati nel Mediterraneo a soccorrere gli immigrati. O imposto almeno dal ministro dell’Interno Marco Minniti con l’appoggio dichiarato del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e, di risulta, del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni.
Le cose – non dimentichiamolo – stanno purtroppo così, essendo il governo composto anche dal ministro Graziano Delrio e da altri esponenti che storcono quanto meno il naso di fronte alle scelte e alle direttive di Minniti, per non parlare dei dubbi attribuiti anche al segretario del partito principale della maggioranza. Che è naturalmente il Pd, guidato da un Matteo Renzi quanto meno diviso fra i compagni ed amici Minniti e Delrio: il primo a capo del Viminale, e quindi delle forze dell’ordine, e il secondo a capo della Guardia Costiera.
In via di principio, dicevo, Travaglio ha ragione a contestare la Boldrini schieratasi, secondo lui, contro la posizione del governo, e non solo di Minniti. Il o la presidente della Camera, come anche quello del Senato, o di qualsiasi asssemblea, dovrebbe avvertire l’obbligo di rimanere al di sopra delle parti che si scontrano politicamente attorno ad un problema o ad una legge. Ma se questo è vero, è anche vero – debbo dire a discolpa almeno parziale della ormai ex vendoliana e ora pisapiana Boldrini – che la neutralità dei presidenti delle assemblee legislative è andata a farsi benedire da un pezzo nella storia della nostra Repubblica.
Nei mesi del governo Tambroni, nel 1960, l’allora presidente del Senato Cesare Merzagora ne criticò l’uso della polizia nelle piazze contro quanti protestavano per la partecipazione dei post-fascisti del Movimento Sociale alla sua maggioranza.
Sempre alla presidenza del Senato arrivò poi un Amintore Fanfani, ex segretario della Dc, per niente neutrale. Il cui peso, già rilevante, aumentò all’interno del partito proprio per il suo ruolo istituzionale. E fu proprio in una sede istituzionale come quella di Palazzo Giustiniani, dirimpettaio di Palazzo Madama, che egli promosse una riunione dei capicorrente del suo partito per svuotare un congresso ormai imminente e predisporre il licenziamento politico di Giulio Andreotti e del suo primo governo neo-centrista e di Arnaldo Forlani dalla segreteria della Dc, destinata a tornare a lui, Fanfani. La sinistra tacque, grata della svolta. La destra o il centrodestra – perché era tale quello che Andreotti aveva realizzato allora – si adeguarono al richiamo evangelico di Fanfani alla sequenza della Quaresima e della Pasqua, della morte cioè e della resurrezione.
Non fu molto neutrale, secondo i suoi compagni di partito, neppure la lunga e dignitosissima presidenza della comunista Nilde Jotti alla Camera, rimproverata personalmente da Enrico Berlinguer nella direzione del Pci per non avere consentito l’ostruzionismo della sua parte politica contro il decreto legge sui tagli alla scala mobile dei salari varato dal governo dell’odiatissimo Bettino Craxi. La Jotti rispose peraltro per le rime al suo segretario di partito, che abbozzò.
Non fu sicuramente neutrale il presidente del Senato Pietro Grasso quattro anni fa, quando assecondò il ricorso addirittura allo scrutinio palese per far decadere dal Parlamento Silvio Berlusconi, che a scrutinio segreto una parte del Pd avrebbe probabilmente salvato rimettendo alla valutazione della Corte Costituzionale la legittimità delle norme applicate retroattivamente al leader dell’allora Pdl, prima che tornasse a chiamarsi Forza Italia.
Ma soprattutto, a discolpa purtroppo della Boldrini, caro Marco Travaglio, ci sono i cinque anni lasciati trascorrere tranquillamente anche dal Fatto, senza alcun editoriale di critica, a Gianfranco Fini. Nel cui ufficio di presidente della Camera, nel 2010, si svolsero riunioni di corrente, di partito e interpartitiche per promuovere la sfiducia al governo in carica presieduto da Berlusconi, Con i cui voti, peraltro, da alleato lo stesso Fini era stato eletto al vertice di Montecitorio, dopo esserne stato il ministro degli Esteri e il vice presidente del Consiglio. Ora l’ex leader della destra missina ha altri problemi, di natura giudiziaria, ma le sue gesta politiche restano indimenticabili.
Quando si consente, per convenienza politica o solo personale, di calpestare il galateo si perde il diritto poi di protestare, quando si trova il gioco non più conveniente alla propria parte, confusa all’occorrenza naturalmente con gli interessi generali del Paese. Come quando la buonanima di Giovanni Agnelli diceva che gli interessi della sua Fiat coincidevano con quelli dell’Italia. Ma che dico? Dell’Europa, prima ancora che nascesse l’Unione; dell’Occidente; addirittura del mondo, per favore con la minuscola.