L’attentato sulle Ramblas di Barcellona, cuore della vita e della movida catalana, è sconvolgente ma non imprevedibile. Parola di Alberto Negri, inviato speciale del Sole 24 ore, esperto di politica internazionale e in particolare del mondo arabo. Infatti, per quanto gli attacchi di giovedì abbiano scosso la Spagna, l’Europa e l’Occidente, i segnali di attività terroristica in Catalogna si susseguivano da anni, come dimostra anche lo studio pubblicato, già nel 2015 dal think tank spagnolo Real Istituto Elcano. Ecco la conversazione di Formiche.net con Negri.
La Catalogna è considerata il crocevia del jihad spagnolo e uno snodo del terrorismo islamico. Qual è il motivo?
Lo spiegano elementi geopolitici, storici e culturali che da tempo fanno sì che la Spagna sia nel mirino dei jihadisti. Dai tempi dell’attacco di Atocha (la stazione della metropolitana di Madrid colpita da al-Qaida l’11 marzo 2004, ndr) in Spagna sono stati arrestati ben 636 jihadisti. Il 45% sono marocchini, elemento geopolitico interessante che spiega la loro provenienza e dice molto di come sia destabilizzata la situazione in Nordafrica e Sahel. Negli ultimi quattro anni, dei 150 arrestati in Spagna, 124 erano collegati all’Isis e 26 ad al-Qaida. In Spagna è stata poi scoperta una rete di cellule con collegamenti in Europa, per esempio a Bruxelles. Pianificavano per esempio un attentato a Palma de Majorca, un simbolo del turismo iberico. Questo avrebbe dovuto far rizzare le orecchie agli spagnoli: era facile pensare che sarebbe finita nel mirino dello jihadismo anche Barcellona, dove peraltro è più facile organizzare un attentato, non essendo un’isola. Del resto la stessa Cia aveva avvertito che il rischio c’era.
E le ragioni storiche?
La penisola iberica nell’immaginario del mondo musulmano è al-Andalus, territorio occupato dagli arabi fra il 711 e il 1492. Molti musulmani credono che i territori islamici perduti durante la riconquista cristiana della Spagna appartengano ancora al regno dell’Islam e i più radicali sostengono che la legge islamica dia loro il diritto di ristabilirvi la dominazione musulmana. Ci sono molti video di propaganda Isis che esortano i militanti a riconquistare la Spagna. Infine ci sono considerazioni generali: è stata una pericolosa illusione pensare che la sconfitta militare portasse alla fine dello jihadismo.
La sconfitta militare di Isis quindi è da leggersi come un rischio maggiore per il terrorismo in Europa?
Pensiamo all’espulsione di al-Qaeda dall’Afghanistan, che non ha segnato la sua fine, ma al contrario le ha permesso di rigenerarsi in Yemen, nel Maghreb, nel Sahel. La stessa cosa farà Isis, magari in Yemen o nel Sinai, area strategica a cavallo di Egitto, Israele e Palestina. Io credo che stiamo per affrontare una fase nuova, di terrorismo diffuso, con altri “marchi” che affiancheranno Isis e al-Qaeda. Penso a Idlib, vicino al confine turco, che con 30mila combattenti sta diventando la nuova capitale del jihad. E in più ci sono il fenomeno dei foreign fighters e la propaganda Isis, che sfrutta le situazioni di emarginazione e i disagi delle periferie europee.
Qual è la relazione fra i vari gruppi jihadisti, da Isis ad al-Qaida passando per i nuovi gruppi emergenti?
La data chiave il 2013 in Siria, quando Isis e al-Qaeda non riescono a far fronte comune contro Assad. Da qui in avanti, visti i successi di Isis, molti membri di al-Qeida vi confluiscono. Detto questo, al-Qaeda ha mantenuto la sua identità perché la guerra siriana è stata anche questo: concorrenza di gruppi diversi con sponsor diversi. Al-Qaeda è stata sostenuta dalla Turchia, Arabia Saudita e Qatar. Da qui deriva un aspetto fondamentale: i gruppi jihadisti non sono estrenei al mondo occidentale e ai nostri alleati arabi. Anzi, sono stati finanziati dalle monarchie del Golfo, Qatar e Arabia Saudita, che volevano rovesciare il regime siriano, spalleggiati dagli Stati Uniti e dell’occidente perché Assad era alleato di Iran e Russia. Siamo stati anche noi i supporter dell’ideologia jihadista, noi e i nostri partner in affari.
Oltre che alla Spagna, minacce di attentati dall’Isis sono arrivate anche all’Italia. Come dobbiamo considerarle? C’è qualcosa che spiega perché siamo stati “risparmiati”?
Una combinazione di due fattori: fortuna e abilità. La fortuna si è vista per esempio quando abbiamo abbattuto l’attentatore di Berlino a Sesto San Giovanni. D’altro canto, i nostri apparati di sicurezza sono stati abili nel mantenere buoni rapporti con le comunità musulmane, che sono uno dei principali strumenti per il controllo del territorio. Ma il fatto che finora siamo stati risparmiati non è certo una garanzia.
Tornando alla Spagna, con i recenti limiti imposti alla rotta libica nel Mediterraneo, si rischia di aprire fra il Marocco e la Spagna un fronte di emergenza migranti con potenziali flussi di terroristi esuli dal Califfato?
Il rischio c’è. L’Italia ha incominciato a costruire, pur con molte contraddizioni, un rapporto più approfondito con le autorità libiche, che ora stanno facendo quello che prima faceva Gheddafi, ovvero pattugliare le loro coste. Sarà fondamentale ricostruire un embrione di stato libico che sia in grado di frenare i flussi e sottrarli almeno in parte ai trafficanti. Senza però farsi illusioni, perché l’economia dei migranti è diventata parta integrante dell’economia libica. In generale, comunque, tutti i vari fattori lasciano pensare che il fenomeno jihadista sarà più lungo nel tempo di quanto non si pensi. Del resto ripeto: il jihadismo ha fatto comodo all’occidente già nel 1979 quando si è trattato di contrastare la conquista sovietica dell’Afghanistan. Insomma, siamo anche noi complici.