Da dove nascono quei sentimenti tanto violenti e sprezzanti che formano il brodo di coltura dell’antipolitica? Ad essere onesti la c.d. classe politica ha investito tanto del suo per meritarsi un astio così grande e diffuso. Del resto, anche in politica “natura non facit saltus”. L’offensiva giudiziaria dei primi anni ’90 ha distrutto una classe dirigente e consegnato il potere a degli homines novi senza arte né parte. Ma non saremmo in queste condizioni se non si fosse sviluppata per anni una campagna mediatica, di stampa, televisiva e saggistica tutta orientata al discredito anche a costo della falsificazione, anche stavolta in sintonia con le procure della Repubblica, da dove è partita una vera e propria caccia all’uomo. La personalità politica è diventata il mostro da sbattere in prima pagina. Nell’ultimo decennio taluni giornalisti di vaglia, “firme eccellenti” di grandi quotidiani hanno costituito fortune (non solo) letterarie, mettendo alla berlina la classe politica, in particolare di centro destra. Poi, come quando una palla di neve che rotola dalla cima, si è formata una valanga che tutto ha travolto. Anche chi credeva di trarne vantaggio.
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In tutti questi anni mi sono chiesto più volte se la strategia del discredito avesse un obiettivo. Ho creduto di trovarlo nel disegno di portare i “tecnici” al governo del Paese. Il che, in una certa fase, ho ritenuto non solo opportuno ma necessario. Purtroppo, quel progetto non ha attecchito. Sono rimasti soltanto l’elogio dell’incompetenza, l’aperta sconfessione della politica e il governo dei peggiori. L’antipolitica in doppiopetto del governo Monti ha ceduto il passo all’antipolitica della plebe, di cui in tanti si candidano per assumere il ruolo di tribuno.
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In vacanza, frugando in una bancarella di libri usati, mi sono imbattuto nel saggio di Stefano Livadiotti dal titolo “Magistrati l’ultracasta” edito da Bompiani. È un testo ben scritto ed ampiamente documentato sui “vizi” di tanti magistrati, quasi sempre “perdonati” dai loro organi disciplinari autonomi. Non ho potuto non chiedermi perché questo libro non ha avuto la medesima fortuna del celebre “La casta” di Sergio Rizzo e Gianantonio Stella o di una delle invettive di Mario Giordano contro le “sanguisughe” e i “vampiri”. A seguito di queste opere d’ingegno si sono sviluppati dei veri e propri filoni letterari, con decine di saggi dello stesso tenore, che poi si sono inseriti negli altri circuiti della comunicazione stimolando nuove gogne patibolari. Il saggio di Livadiotti, invece, è risultato in pratica sterile. Un caso isolato ben presto dimenticato. Ben pochi hanno ripercorso il cammino di chi ha osato denunciare “di che lacrime grondi e di che sangue” un potere malato.