Toh, un terremoto. Nel Paese più sismico del pianeta ci si guarda negli occhi smarriti, ogni volta che accade. E se anche accade spesso, è ogni volta una prima volta. Tutti sorpresi, perfino allibiti.
Sono trascorsi otto anni dall’Aquila, sei dall’Emilia, uno da Amatrice, due giorni dall’evento di Ischia. Solo tra Lazio, Marche e Umbria si sono ripetute sessantamila scosse negli ultimi dodici mesi. Eppure viviamo fingendo di non sapere dove viviamo. Procediamo con la rapsodia delle emergenze senza che tra un episodio e l’altro si innesti nel Paese una prassi.
Qualche tempo fa una amica canadese, Marie-Claire Lynette Desjardin, mi ha spiegato quante esercitazioni antisismiche si fanno nelle loro scuole. Me lo ricordo nettamente per come ha mimato, rannicchiandosi improvvisamente a terra, l’esatto movimento di auto-protezione che imparano da bambini. Le ho chiesto se la sua Vancouver è ad alta sismicità. “Per niente. Ma ce lo insegnano perché non si sa mai, nella vita”.
Forse sarebbe il caso di iniziare anche noi: in quanti dei nostri posti di lavoro, in quante scuole, in quanti luoghi pubblici si eseguono esercitazioni? Quanti conoscono l’architrave più sicuro sotto al quale correre nel proprio appartamento, in ufficio, nei palazzi, nei condomini?
Giusto costruire in sicurezza, ma ciascuno costruisca la propria sicurezza personale attrezzandosi intorno a una certezza da assumere: siamo tutti terremotati. O terremotabili.