Chiunque abbia la presunzione di leggere con chiarezza l’incedere della presidenza Trump, non solo è borioso, ma mente. L’andamento dello Studio Ovale non è mai stato così tanto strambo quanto indecifrabile. Le osservazioni servono a registrare il percorso, le previsioni sulle traiettorie sono un rischio che si può correre, ma la comprensione della direzione complessiva al momento è qualcosa di etereo. Per esempio: perché il segretario di Stato Rex Tillerson e il consigliere economico Gary Cohn ancora restano al proprio posto, nonostante la scorsa settimana si siano resi protagonisti di due vicende che in altri casi avrebbero calamitato le ire del presidente fino al “You’re Fired!” finale? Perché invece il boss di “The Apprentice” subisce, per ora, questa insubordinazione pesante e nemmeno ne parla?
IL MOTIVO COMUNE
Con ordine. Domenica 27 agosto è uscita un’intervista del Financial Times a Cohn, e tra le varie cose il consigliere economico della Casa Bianca – per lui si parla anche di un prossimo ruolo alla guida della Fed – ha scaricato la posizione del presidente sulla vicenda di Charlottesville. In breve, visto che è il punto di contatto superficiale nelle due questioni: a Charlottesvile, in Virginia, due settimane c’è stata una manifestazione di suprematisti bianchi finita nel sangue di un attentato, quando un neo-nazista s’è lanciato sulla folla di coloro che protestavano contro l’ultra destra. Una donna è morta, e il presidente Donald Trump ha assunto una posizione sgangherata sulla vicenda: prima ha detto che le violenze c’erano state da entrambi i lati, poi ha condannato i suprematisti, poi s’è rimangiato tutto tornando sulla tesi dei “both sides“, senza mai parlare del car-ramming assassino neo-nazi.
L’INTERVISTA DI COHN
Cohn è ebreo e al FT ha detto: “Sono sotto pressioni enormi, sia per dimettermi che per rimanere nella mia attuale posizione. Come americano patriottico, sono riluttante a lasciare il mio posto […] Ma mi sento anche costretto a esprimere il mio disagio sulle vicende delle ultime due settimane […] I cittadini che si levano in piedi per uguaglianza e libertà non possono mai essere equiparati ai suprematisti bianchi, ai neonazisti e al KKK”. Per quanto noto il consigliere – che è membro della cerchia dei Newyorkers che insieme ai generali e all’establishment del partito sta cercando di imprimere una normalizzazione alla presidenza – nei giorni dopo i fatti di Charlottesville si è presentato a colloquio nello Studio Ovale con in mano una lettera di dimissioni firmata.
L’INTERVISTA A TILLERSON
Sempre domenica 27, Tillerson s’è fatto intervistare da Chris Wallace di Fox News. Wallace, che è meno agguerrito nella difesa della presidenza rispetto ai suoi colleghi di rete, ha chiesto al segretario di Stato di parlare della reazione di Trump alla vicenda avvenuta in Virginia, e il capo della diplomazia americana ha risposto che quello che il presidente ha detto rappresenta le sue opinioni personali – siamo noi, nel nostro dipartimento, che ci occupiamo di portare avanti i valori americani, ha continuato Tillerson, lui “parla per se stesso”. È una cosa fuori dal senso logico (un presidente che parla alla nazione a titolo personale?!), ma soprattutto è una provocazione tremenda.
I PERCHÉ DI TRUMP
Dietro alle parole di Tillerson ci sono due letture, incastrate l’un l’altra. Il dipartimento di Stato è finito sotto la scure della legge di bilancio, con tagli quasi del trenta per cento. Una situazione che ha richiesto un riordino degli alti ranghi – molti tra l’altro sono partiti e l’organigramma, ancora, dopo sette mesi di amministrazione, è zeppo di buchi – e l’eliminazione di uffici speciali e inviati su crisi in atto, dall’Artico al climate change, alla cybersecurity. Questa frustrazione Tillerson la prova aumenta considerando che Trump non gli lascia spazio: lo anticipa in molte delle mosse che dovrebbero essere appannaggio dei diplomatici, o mette peso per far cancellare le diverse sfumature di visioni che il segretario prova a sottolineare. Siamo al punto che i massimi dirigenti del dipartimento vedono il loro segretario debole, e non hanno fiducia in lui – in molti lo considerano alla stregua di un cacciatore di teste, chiamato più per razionalizzare gli uffici di Foggy Bottom che per rappresentare l’America nel mondo. Contemporaneamente però, Tillerson è membro laterale di quel gruppo di normalizzatori che sta vincendo il braccio di ferro interno alla Casa Bianca, e forse, anche per recuperare polso e con le spalle coperte dal momento, ha scelto di giocare duro in una sorta di all inn col quale ristabilire i rapporti di forza col presidente.
Trump è un artista del deal: potrebbe concedere spazi, stretto dal pragmatismo necessario per gestire questa fase dell’amministrazione in cui il presidente sembra sempre più isolato. E lo stesso vale per Cohn. I due restano, perché servono (oppure i normalizzatori hanno talmente tanta forza, adesso, da permettersi di fare e dire ciò che vogliono?).