“Tutto crollerà… tutto sta già crollando”, faceva dire Louis Ferdinand Cèline nel “Viaggio al termine della notte” al protagonista.
Siamo tornati alla furia di una nuova stagione iconoclasta: le ideologie dominanti -quelle del Partito Unico del Politicamente Corretto- abbattono in America le statue dei confederati e di Colombo, in Ucraina quelle di Lenin, in Oriente tutto ciò che per l’Isis è pagano, in Ghana il monumento a Gandhi. Sono già annunciate nuove vittime: Pétain, Balbo, Nelson. Da noi in questi decenni ci si è limitati alle guerre toponomastiche, salvo qualche recente uscita sui monumenti fascisti e una certa soddisfazione malcelata per il rogo sul Monte Giano.
Pare che si debba ancora imparare a fare i conti con la Storia e con la sua contestualizzazione. Le mentalità con il sorriso splendente che professano apertura stanno mostrando il loro volto più feroce e un’indole tesa all’egemonizzazione totalitaria, talvolta sfiorando la farsa. E chissà, un giorno proveremo verso questi episodi quel che abbiamo provato per la demolizione di Ninive o per il fanatismo del governo talebano. La memoria non può essere selettiva e la barbarie non è solo degli altri.
Sono forze ed attori che vogliono giudicare con la propria assoluta morale episodi -anche tragici- del passato. Eric Zemmour, nel Suicidio francese, ne fa un catalogo completo: è una rete di accademici sessantottini poststrutturalisti, potenti businessman antinazionali, élite burocratiche e politiche apolidi e senza senso di identità.
I monumenti sono le tracce della memoria di ciò che gli uomini hanno fatto; una traccia che va oltre il tempo. Le opere di un uomo sono ciò che rimane della grandezza di un personaggio, di una generazione, di una cultura, di una civiltà. Anche nella sua tragicità.
Il Mondo è stato -ed è- un grand guignol. Va accettato, e con i mali vecchi e nuovi bisogna conviverci.
Le ingiustizie sono parte integrante della vita.
E chi vuole sradicare il conflitto dalla Storia, non odia ciò che è avvenuto, ma la vita stessa.