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Perché il Marocco non è scalfito dall’Isis. Parla il capo degli 007 marocchini

All’indomani dell’attentato di Barcellona del 17 agosto, quando un furgone si è lanciato sulla folla uccidendo 23 persone e ferendone 86, gli occhi dell’intelligence internazionale sono tornati a scrutare un paese del Maghreb. Parliamo del Marocco, che ha dato i natali al giovane ventiduenne alla guida del furgone Renault,Younes Abouyaaqoub.

Ma anche a tutti gli altri 10 membri della cellula terroristica, compreso il più giovane di tutti, il diciassettenne Moussa Oukabir, ucciso nella sparatoria di Cambrils, che era nato ad Aghbalà, città sperduta nell’entroterra maghrebino. Dal Marocco veniva anche il diciottenne che poche ore prima dell’attacco di Barcellona aveva accoltellato a morte due donne nella cittadina finlandese di Turku. E due anni prima un marocchino residente in Belgio, Abdelamid Abaaoud, aveva seminato il panico nella notte del 13 novembre 2015 a Parigi.

Dal 2015 in Marocco sono state smantellate 45 cellule terroristiche pronte a colpire, arrestate 698 persone, e ben 1664 marocchini hanno lasciato il paese per unirsi alla Jihad in Siria ed Iraq. I numeri sono confermati da una fonte più che autorevole: Abdelhaq Khiame (nella foto), direttore dell’FBI marocchino, il “Bureau central des investigations Judiciaires” (BCIJ) di Rabat. Intervistato per La Stampa da Karima Moual, Khiame spiega il paradosso che rende il Marocco un unicum nella regione del Maghreb.

Vera fucina di foreign fighters fin dal 2002, la monarchia di Muhammad VI vanta però un apparato di intelligence e prevenzione senza eguali. Dal 2011, quando una bomba in un ristorante di Marrakech ha spezzato 17 vite, in Marocco non si registrano attacchi terroristici di rilievo. Da quando l’ISIS ha preso forma, 929 marocchini sono riusciti ad unirsi alle sue truppe, ma non uno di loro è riuscito a colpire il paese d’origine.

Come spiegare l’eccezione? “Il nostro ruolo come antiterrorismo è frutto di un lavoro che procede dal 2002” risponde il n. 1 dell’intelligence di Rabat, “siamo partiti in anticipo riguardo alla lotta al terrorismo quando ancora era salafita con legami in Afghanistan”.

Non è un lavoro facile quello del BCIJ. Innanzitutto perché i pericoli possono provenire da ogni angolo del paese: “Agli inizi, con l’ascesa dello Stato islamico, le cellule affiliate al Califfo erano per lo più provenienti dal sud del Marocco” racconta a La Stampa il direttore degli 007 marocchini, “precisamente da Agadir, Laayounem Tantan, che avevano anche legami con i separatisti dei Polisario”. Ma anche perché i nuclei di appartenenza possono essere i più insospettabili: non solo ISIS, Al Qaeda, al-Nusra, ma anche gruppi illegali come “Al Adl Wal Ihsan”, “molti dei jihadisti sono passati prima anche per questo movimento”.

Il regime monarchico marocchino, che si regge sui pilastri di un sistema giuridico permeato dalla sharia, gode di ampio consenso tra la popolazione e vanta il pieno ed effettivo controllo del territorio. Eppure dal 2011 al 2016 il numero di foreign fighters che hanno lasciato il Paese alla volta della Siria supera il totale di tutti i combattenti partiti per l’Afghanistan fin dal 1980. Un’emorragia che, secondo un recente rapporto sul Maghreb dell’International Crisis Group, suggerisce “che l’apparente stabilità del paese oscura la frustrazione socio-economica e il desiderio in una parte della popolazione di un radicalismo politico che può essere soddisfatto solo all’estero”.

In Europa, la Spagna è il paese più preso di mira dagli estremisti marocchini, complice la contiguità geografica. Segue l’Italia, che dal 2015 ha espulso 150 marocchini sospettati di terrorismo. “Perché non sono nella vostra lista?” domanda Karima Moual a Khiame. “Perché al loro arrivo, e dopo le nostre indagini, l’accusa sarà risultata non del tutto fondata e sostenuta da prove concrete per tale crimine”.

Della folla di giovani marocchini che hanno fatto propria la bandiera del Califfato, 82 sono tornati in patria finendo dietro le sbarre. Lasciarli in carcere senza una supervisione permettendo loro di radicalizzare i compagni di cella sarebbe un grave errore. Così “queste persone insieme ai jihadisti interni vengono seguiti nell’ambiente carcerario con un programma di de-radicalizzazione, attraverso istituzioni come la Rabita Mohamadia, insieme al coinvolgimento di psicologi, Ulema, sociologie antropologi”.

Prevenzione, intelligence, de-radicalizzazione sono gli ingredienti con cui il Marocco, unico Stato della regione, riesce a tenere il fenomeno jihadista sotto controllo. Qui l’intervista della Moual offre uno spunto di riflessione per la sicurezza europea. “Dal 2003 sono bandite moschee o Guide religiose autoreferenziali. È vietato che in una moschea possa pronunciare un sermone un chicchessia senza che questa Khutba passi e sia convalidata dall’Alto consiglio degli Ulema” racconta il capo dell’intelligence. “Gli stessi Imam, e le Mourshidat (le guide femminili) vengono dapprima formate secondo l’islam malikita sunnita e moderato”. Un sistema di prevenzione che può fare da road map non solo per i governanti, ma anche per le stesse comunità islamiche dei Paesi membri UE.

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