“Nel discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite c’è un perfetto spaccato dell’attuale presidenza di Donald Trump: la continua ricerca di un equilibrio tra ‘America First’ e la necessità di non spaventare gli alleati muovendosi in politica estera” dice a Formiche.net Carlo Pelanda, professore, coordinatore del dottorato di ricerca in geopolitica e geopolitica economica dell’Università Guglielmo Marconi di Roma.
“Siamo sempre sulla linea del riequilibrio – aggiunge il professore, che aveva già tracciato con Formiche.net questo genere di visione del presidente americano – perché Trump sta dicendo agli alleati che cerca reciprocità nei rapporti. Il problema è che questo messaggio in realtà spaventa i partner americani, che a questo punto si rivolgono all’Europa: vedere per esempio il Canada o l’Australia, ma anche il Giappone”. Tutto questo, secondo Pelanda, ci consegna una realtà: l’America si è trasformata da impero a regno e si trova in difficoltà contro la più grande potenza imperiale che attualmente c’è sulla scena, la Cina.
Ecco, la Cina appunto: Trump aveva promesso sfaceli contro i cinesi durante la campagna elettorale, e anche su questo dossier fondamentale ci sono stati andamenti ondivaghi del suo pensiero, dall’astio alle dichiarazioni di amicizia e simpatia per il presidente Xi Jinping. A che punto siamo con il rapporto con Pechino? “L’America negli anni ha regalato uno spazio enorme alla Cina, e adesso non sa cosa fare, perché a questo punto è impossibile contenerla dato che ormai è il centro del mercato mondiale. La realtà è questa: Trump non ha una strategia (e non ha nemmeno una politica estera). Può mettere dei paletti, i cinesi possono far finta di starci, ma fondamentalmente se ne fregano”. Pelanda dice che paradossalmente Barack Obama nel suo confronto con la Cina era stato “più cattivo”. Perché? “Perché chiedeva anche lui reciprocità commerciale agli alleati, ma aveva cercato di creare un mercato condiviso con gli amici dell’America, al quale aveva dato un significato strategico di condizionamento della Cina. Ed è tutto lì”.
“Il problema di Obama – continua il docente – è stato che l’applicazione di quella strategia è stata sbagliata. Però adesso Trump si trova a dover cercare accordi bilaterali da mettere a sistema dopo aver stracciato il TPP, che era un pezzo di quella strategia obamiana, con gli alleati terrorizzati da quel che sarà”. Ormai, secondo il professore, l’America viene osservata come si “controlla un ragazzino”, perché tutti sanno che “Trump può fare danni: la testimonianza è Vladimir Putin“.
Perché la Russia? “In molti credono che il super-attivismo russo sia una strategia offensiva, ma non è così. L’attivismo di Mosca è una mossa difensiva. Sono i russi a risentire di più di questo ritiro americano davanti all’impero cinese. Il Cremlino guarda con ansia le strategie euroasiatiche di Pechino, e fino a qualche mese fa scommetteva sulla capacità di contenimento che Trump avrebbe potuto avere, ma attualmente, davanti ai fatti, trema perché senza il ruolo americano la Cina può mangiarsi la Russia”. Per almeno un paio d’anni, dice il professore, è possibile che si ricrei uno schema “a palle di biliardo” come secoli fa, con diverse potenze internazionali che rimbalzano secondo i propri interessi (“Tipico della caduta improvvisa di un impero come quello americano”, dice il professore): “Ma poi l’America cercherà di ritornare nel mondo. Per ora, d’altronde, alla Casa Bianca comandano i militari, e si sa che loro, a differenza delle intelligence, sono più portati a gestire un regno che un impero, perché il primo si difende meglio”.