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Come e perché la Cina di Xi sta abbandonando la scomoda Corea del Nord

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Adesso il regime nordcoreano di Kim Jong-un ha davvero passato il segno. È riuscito a mettersi contro perfino la Cina di Xi Jinping, primo partner commerciale, da sempre difensore della stabilità nella regione da qualsiasi ingerenza estera, a partire da quelle statunitensi. Già all’indomani del sesto test nucleare di Kim la Cina aveva preso posizione, rifiutandosi di porre il veto alla votazione anonima per il pacchetto di sanzioni Onu più massiccio di sempre.

Ora, all’indomani dell’annuncio del ministro degli Esteri nordcoreano Ri Yong-ho di un imminente test di una bomba H nel Pacifico, Pechino esce allo scoperto per abbandonare lo scomodo alleato. Con un comunicato oggi il ministero del Commercio del Dragone ha annunciato che a partire dal primo ottobre ci sarà una drastica riduzione dell’export di petrolio raffinato verso Pyongyang fino a 2 milioni di barili annui.

A questa misura si aggiungerà, in obbedienza alle sanzioni Onu, il blocco totale delle esportazioni di gas condensato e liquefatto verso il regime, così come delle importazioni nel settore tessile. In questo campo i contratti conclusi prima dell’11 settembre saranno onorati se, chiarisce il ministero, le pratiche burocratiche per le importazioni saranno completate entro il 10 dicembre.

Due affondi che renderanno la vita difficile a Kim, già deriso su twitter questa settimana dal presidente americano Trump per le “lunghe file ai benzinai”. Secondo i dati dell’Observatory of Economic Complexity (OEC), fino all’inizio del 2017 Pechino è stata in cima alla lista delle destinazioni dell’export (2,34 mld di dollari) e l’import (2,95 mld) della Corea del Nord. Solo il business dei carburanti, stando ai dati dell’Agenzia per l’Informazione sull’Energia statunitense, nel 2016 ammontava a 15.000 barili di petrolio grezzo e 6.000 di raffinato scambiati ogni giorno al confine con la Cina.

Che questa volta Pechino faccia davvero sul serio lo dimostra anche il nuovo pacchetto di provvedimenti per tagliare i legami con le banche nordocoreane. Lunedì scorso la People’s Bank of China ha diramato un comunicato fra le banche cinesi in cui chiede di attenersi alle nuove sanzioni Onu e di congelare qualsiasi servizio finanziario verso Pyongyang, compresi i prestiti in corso con i clienti nordcoreani. “Al momento la gestione del business con la Corea del Nord è divenuto un tema prioritario per la politica e la sicurezza nazionale” si legge nel documento visionato da Reuters.

Se il governo cinese ha capito di non poter più tentennare agli occhi dell’Onu e degli Stati Uniti, nulla cambia nella strategia geopolitica del Paese. La parola d’ordine che ha guidato per decenni e guiderà ancora la Repubblica Popolare Cinese deve rimanere una: stabilità. Non saranno dunque ammesse interferenze militari né americane, né tantomeno del vicino Giappone.

Non è un caso che il ministro degli Esteri cinese Wang Yi abbia avvertito il collega giapponese Taro Kono, a margine di un incontro dell’Onu a New York, di smorzare i toni con Pyongyang, perché “se il Giappone parla solo di sanzioni e non si apre a un dialogo, o addirittura lo avversa, questa sarà vista come una contravvenzione delle risoluzioni Onu”.

L’intesa fra Stati Uniti e Cina sembra dunque rimanere confinata al lato delle sanzioni commerciali. Andare oltre le misure già prese rischia di destabilizzare gravemente la penisola coreana e soprattutto di innescare una crisi umanitaria e un flusso migratorio dalla Corea del Nord di cui Pechino sarebbe la prima a pagare le conseguenze.

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