Il dittatore del piccolo Stato nordcoreano – 25 milioni di abitanti, meno della metà di quelli della Corea del Sud e del 20% di quelli del Giappone – ha ripetutamente sfidato gli Usa e anche la Cina. Kim Jong-un ha finora vinto. Ha “visto” il bluff di Donald Trump, umiliando gli Usa e preoccupando i loro alleati. Ha eliminato gli esponenti nordcoreani favorevoli a Pechino. È stato sempre persuaso che gli Usa non l’avrebbero attaccato. Non avrebbero potuto accettare le considerevoli perdite che avrebbero subito la Corea del Sud e il Giappone. Con il nuovo presidente sudcoreano, Moon, contrario ad attacchi preventivi e forse anche a reazioni militari massicce in caso d’aggressione nordcoreana, gli Usa hanno temuto che in caso di conflitto Seul non avrebbe cooperato con le forze americane. Senza un attacco terrestre sudcoreano oltre il 38° parallelo, qualsiasi iniziativa Usa non potrebbe avere successo. Solo in caso di un attacco nordcoreano agli Usa, Washington potrebbe trascurare i timori dei suoi alleati.
La retorica di Donald Trump – “di fuoco e furia” e all’Onu ha detto in sostanza “se la Corea ci attacca, unica scelta è distruggerla” – è stata “trumped” come hanno scritto taluni media americani. D’altronde, le minacce di attacco preventivo del presidente espresse di recente erano state subito smentite dal suo Segretario della Difesa, James Mattis, consapevole che gli Usa non potevano permettersi di trascurare le preoccupazioni del governo di Seul, di evitare un gran numero di vittime. Esse potrebbero essere provocate non solo da un attacco nucleare, ma anche dalla poderosa artiglierie convenzionale di Pyongyang, schierata sul 38° parallelo a distanza di tiro da Seul. Imprecisati sono sempre rimasti gli obiettivi finali di un conflitto, così come incerte lo sono state le reazioni non solo della Cina, che vede nella Corea del Nord uno Stato-cuscinetto indispensabile alla sua sicurezza, ma anche quelle della popolazione nordcoreana. In Occidente esiste l’illusione che essa si ribellerebbe a un regime – quello della famiglia Kim e del partito comunista – che l’hanno oppressa e impoverita. Forse non è così. Taluni pensano che i nordcoreani si ribellerebbero a un’invasione, dando luogo con il sostegno della Cina e della Russia a una guerra prolungata, che renderebbe difficile la stabilizzazione della penisola.
Parimenti irrealistica è la proposta, attribuita anche ad Angela Merkel, di affrontare il problema del nucleare nordcoreano in modo analogo a quello del nucleare dell’Iran. Le condizioni sono infatti molto diverse. La Corea del Nord possiede ormai l’arma nucleare e missili in grado di colpire il Giappone oltre che la Corea del Sud. Sta poi mettendo a punto missili intercontinentali capaci di colpire gli Usa. È quindi di fatto uno Stato nucleare. Potenzialmente almeno dispone anche della capacità di “secondo colpo”, cioè di sottrarre parte delle sue forze nucleari a un attacco preventivo, data l’ampia dispersione e la bunkerizzazione dei siti su cui sono schierate. Già ora, anche ricorrendo a un attacco nucleare massiccio, gli Usa non possono avere la certezza di distruggerle completamente. Ancor meno sicuro è che qualsiasi pressione internazionale o sanzione economica possa indurre Pyongyang a distruggere le sue forze nucleari.
Si dovrà, prima o poi, prendere atto della situazione. Gli appelli alla collaborazione della Cina – e anche della Russia – perché “strangolino” economicamente Pyongyang, inducendo Kim Jong-un a denuclearizzare, sono chiaramente irrealistiche. Neppure un embargo petrolifero completo potrebbe convincere il dittatore nordcoreano a distruggere strumenti che ritiene necessari per la sopravvivenza propria e del suo regime. Per evitare cioè di fare la fine di Saddam Hussein o di Gheddafi. L’economia nordcoreana è più resiliente di quanto si pensi. Dispone di quasi 200 navi con le più diverse bandiere, chiaramente camuffate per aggirare un embargo totale. Può fronteggiare la mancata esportazione di petrolio ricorrendo alla liquefazione del carbone di cui dispone in grandi quantità. Va ricordato che, proprio con la liquefazione del carbone nordcoreano, il Giappone imperiale aveva fornito di combustibile la sua marina.
Accettata la realtà della nuclearizzazione di Pyongyang, si pongono due interrogativi. Il primo riguarda come Kim Jong-un utilizzerà il suo nucleare. Potrebbe impiegarlo solo per dissuadere un attacco contro il suo regime, oppure anche come ombrello per aggredire la Corea del Sud, come nel 1950 e unificare la penisola coreana. A parer mio, la pianificazione militare di medio-lungo periodo, che dovrà essere attuata dagli Usa e dai loro alleati del teatro Asia-Pacifico, deve tener conto della seconda ipotesi. Inevitabile sarà un maggior impegno Usa. Solo esso potrà evitare la nuclearizzazione della Corea del Sud e del Giappone.
A breve termine rimarrà anche l’esigenza di prepararsi a reagire a un improvviso precipitare della situazione. Quest’ultimo potrebbe verificarsi indipendentemente da una deliberata volontà della Corea del Nord, ma a seguito di un errore nel sistema di guida dei missili, che verosimilmente Pyongyang continuerà a lanciare. Uno di essi potrebbe cadere sulla Corea del Sud o sul Giappone scatenando pesanti reazioni. La risposta americana dovrà essere immediata, in modo da non compromettere la credibilità della garanzia data da Washington ai propri alleati. Dovrà però essere anche limitata, per non innescare un’escalation incontrollabile e non obbligare la Cina a intervenire.
Tali adeguamenti dell’attuale strategia americana presuppongono che Washington sia convinta che Kim Jong-un sia un attore razionale, e non un pazzo incontenibile. Per ora, si è dimostrato di essere un buon giocatore. Ha scommesso sulla divisione e sulle debolezze dei suoi avversari. Ha avuto ragione, anche con la Cina, timorosa di provocare la caduta del regime e il caos. Forse non poteva fare altrimenti. Deve temere di essere eliminato. In caso contrario, non si sarebbe comportato tanto disinvoltamente nelle sue sfide non solo a Washington, ma anche a Pechino.
Insomma, più che alla denuclearizzazione della Corea del Nord, Washington dovrebbe puntare alla diminuzione dei rischi di un conflitto. Deve abbandonare le fantasie di una guerra preventiva perfetta e risolutiva. Deve puntare sul contenimento e la dissuasione.