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Vi spiego chi gongola e chi borbotta per le decisioni della Bce di Draghi

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Il comunicato emesso giovedì pomeriggio dalla Bce al termine della riunione mensile del suo Consiglio direttivo e illustrato da Mario Draghi nella successiva conferenza stampa indica che ancora una volta i rappresentati della Germania non ce l’hanno fatta. Questa è la buona notizia. La richiesta della Bundesbank, cui si era aggiunto per l’occasione il ministro delle Finanze Schauble, di concludere o quanto meno di ridimensionare fortemente il Quantitative Easing, cioè l’acquisto mensile di titoli da parte della Bce e la conseguente immissione di liquidità nell’eurozona, non è passata.

La Bce ha annunziato che continuerà il programma di acquisto dei titoli nella misura attuale e mantiene inalterati i tassi di interesse. Draghi ha tenuto a precisare che la crescita dei prezzi nell’eurozona è ancora inferiore a quel traguardo del 2% che è l’obiettivo della Banca ed ha aggiunto che la recente rivalutazione dell’euro, comportando un minore costo in euro delle materie prime, potrebbe riflettersi in una minore inflazione. Per cui per ora nulla cambia.

E tuttavia la riunione non deve essere stata facile. Perché accanto all’annuncio che le politiche della Bce per ora restano immutate, vi è stata la notizia, assai meno buona, comunicata da Draghi e cioè che probabilmente nella prossima riunione del Consiglio, che si svolgerà a fine ottobre, la Bce inizierà a discutere del “ricalibramento” dei suoi interventi. In sostanza, cioè, vi è da ritenere che intorno alla fine di quest’anno comincerà una progressiva attenuazione del quantitative leasing e quindi un certo aumento dei tassi di interesse. Per noi sarà l’inizio di una fase di nuove ed accentuate difficoltà.

In queste discussioni in seno alla Banca centrale europea si riflette la disomogeneità delle diverse situazioni all’interno dell’area dell’euro. Per la Germania, che è alla piena occupazione, non serve una politica monetaria così espansiva. Essa non ha bisogno di tassi di interesse particolarmente bassi, né di una liquidità monetaria così abbondante. La Germania è pronta a tornare verso condizioni normali.

Per altri Paesi come la Francia, e per un Paese come l’Italia dove la ripresa è debole e il debito pubblico è alto, l’aumento dei tassi di interesse potrebbe comportare – anzi comporterà certamente – conseguenze molto negative. L’aumento dei tassi di interesse potrebbe addirittura innescare, con l’aiuto dei movimenti della speculazione internazionale, una crisi del debito pubblico. Quindi una politica monetaria espansiva è e rimane indispensabile ed è anche, in qualche misura, nell’interesse della stessa Europa.

Tutto questo illustra l’irrazionalità della costruzione monetaria europea. Essa prevede una politica monetaria unica che si applica a Paesi che possono avere, e che nella realtà hanno, condizioni fra loro molto diverse e quindi esigenze molto diverse, se non opposte. Qualunque scelta monetaria si rivelerà adatta agli uni e dannosa agli altri; oppure egualmente dannosa agli uni come agli altri.

Questo problema della politica monetaria sarebbe grave, ma tutto sommato gestibile, se la politica monetaria fosse uno degli strumenti di politica economica di cui i singoli stati possono disporre. Se oltre alle condizioni monetarie, fissate dalla Bce, e che per definizione non si attagliano alla condizione di tutti i membri, ciascuno di essi disponesse delle politiche di bilancio pubblico con le quali compensare gli effetti negativi della politica monetaria comune, il sistema potrebbe funzionare. Ma se i trattati europei prevedono – come in effetti prevedono – che il solo strumento manovrabile è la politica monetaria, mentre bisogna sterilizzare del tutto le politiche di bilancio, la unione monetaria diventa un corsetto troppo stretto per gli uni e troppo largo per gli altri, cioè un sistema alla lunga insostenibile per tutti.

La stessa cosa vale per il tasso di cambio. Nella conferenza stampa di Draghi è stata abbastanza surreale la risposta a una domanda sul tasso di cambio dell’euro che in queste settimane si è molto rivalutato rispetto al dollaro. La Bce – ha detto Draghi – non si occupa del tasso di cambio dell’euro se non nella misura in cui esso può avere dei riflessi, attraverso il mutamento dei prezzi in euro delle materie prime importate, sul tasso di inflazione dell’eurozona.

In altre parole, se una rivalutazione dell’euro comporta effetti negativi sulle esportazioni e quindi sulla produzione e sull’occupazione, il problema non è di pertinenza né della Bce, né di alcun’altra istituzione europea. Se invece vi è un effetto sui prezzi, allora la Bce è chiamata ad intervenire, magari aggravando con il suo intervento la condizione dell’occupazione in tutta l’area dell’euro o in alcuni dei suoi Paesi. Ma può avere un futuro una costruzione europea così asimmetrica?

In realtà, così come i vari Paesi dell’area dell’euro hanno interessi diversi in materia di politica monetaria e di livello dei tassi di interesse, così essi hanno interessi diversi sul tasso di cambio dell’euro. Chi è vicino alla piena occupazione, non ha ragione di preoccuparsi se l’euro si rivaluta, ma chi dipende per la ripresa dalla competitività delle esportazioni ed è lontano dalla piena occupazione, ha un interesse totalmente opposto.

Queste sono le contraddizioni della costruzione monetaria europea. Ci accorgeremo di quanto esse sono profonde quando nella normale evoluzione di queste cose al posto di un presidente che proviene da un Paese dell’Europa centro meridionale sarà eletto un presidente che proviene dall’Europa centro settentrionale e al posto di un presidente che, pur facendo il banchiere centrale, non ha dimenticato del tutto l’importanza della domanda nel raggiungimento della piena occupazione, si passerà a un banchiere ortodosso per il quale la stabilità monetaria costituisce l’inizio e la fine del proprio orizzonte.

 

Se ci si rendesse conto che le contraddizioni non sono destinate a ridursi con il tempo, forse si potrebbe cercare di rimediarvi. Se invece prevale l’idea che in un modo o nell’altro abbiamo imboccato una strada irreversibile e dunque non c’è bisogno di lambiccarsi il cervello sul modo in cui affrontare i problemi, potremo subire un brusco risveglio da parte degli elettori. Come nel caso della Brexit.


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