Che Eleonora Duse sia stata la “divina” del palcoscenico è assodato: la “più grande attrice che io abbia mai visto”, per Charlie Chaplin. Attrice sublime, davanti alla quale sovrani potenti e gli intellettuali più vezzeggiati d’Europa cadevano in adorazione. Ma anche formidabile ambasciatrice culturale dell’Italia nel mondo, come sostiene nella sua biografia Alphons Rheinhardt. Pubblicata per la prima volta a Berlino nel 1929, molto citata e poco letta, è stata tradotta da Lavinia Mazzucchetti per l’editore Castelvecchi ( 2015).
Il testo del letterato viennese, seguace dell’espressionismo, amico di Robert Musil e Joseph Roth, internato dai nazisti e morto a Dachau (1945), è una sorta di diario dello sviluppo artistico e delle svolte esistenziali della bète de théàtre, che attinge largamente all’enorme serbatoio delle recensioni, delle testimonianze e degli epistolari dell’epoca. Rheinhardt, in fondo, non nasconde la sua nostalgia per un mito che rischiava di essere soppiantato da quello di Greta Garbo (la quale nel 1925 aveva girato “La via senza gioia”, con la regia Georg Wilhem Pabst). All’inizio degli anni Trenta il regista Rouben Mamoulian aveva pensato proprio alla “divina” del cinema per un film sulla Duse, ma il progetto era stato archiviato nel timore di un fiasco della star hollywoodiana.
La prima italiana a cui la rivista Time ha dedicato la sua copertina nasce a Vigevano, il 3 ottobre 1858. Ventenne, è a Napoli per una stagione al teatro dei Fiorentini, dove lavora con la celebre Giacinta Pezzana. Nella città partenopea Eleonora conosce Matilde Serao, che diventerà la sua amica più cara; recita in “Teresa Raquin” di Émile Zola, un dramma crudo e realistico che corrispondeva alla sua indole inquieta e alla sua vena innovatrice. Il suo talento viene notato da Cesare Rossi, capocomico di una affermata compagnia, che le offre il ruolo di “prima donna”. Lo segue a Torino, dove l’amministrazione comunale gli aveva offerto un contratto vantaggioso. Non sarà un’esperienza esaltante.
Nel 1881 convince il suo impresario a rappresentare un’opera di Alexandre Dumas figlio, “La principessa di Bagdad”. La scelta si rivela azzeccata e imprime una svolta alla sua carriera. L’anno dopo è l’applauditissima protagonista di un altro dramma di Dumas figlio, “La moglie di Claudio”. I critici, tra cui l’autorevole e assai riverito Francesco D’Arcais, sono ormai ai suoi piedi. Il cronista Camillo Antona Traversi annota entusiasta: “Sul palcoscenico del Valle ogni sera piangeva, soffriva, amava, delirava una creatura umana. La solita finzione scenica aveva ceduto il posto alla verità […]. Oh, la infinita bellezza di quell’arte! Fu un grido di gioia. Un canto di vittoria”. Dopo una breve pausa, imposta dalla nascita nel 1882 della figlia Enrichetta, Eleonora riprende i suoi pellegrinaggi nei teatri della penisola. Ormai non c’era città che ignorasse il suo nome.
A chi la esortava a prendere in mano le redini del teatro italiano, rispondeva privilegiando la propria avventura personale. Sebbene fosse ormai in grado di promuovere iniziative redditizie nel mercato internazionale degli spettacoli, restava la solitaria cacciatrice di un teatro aderente alla vita. I suoi silenzi, sussurri, gesti del corpo, destinati a penetrare la verità del personaggio, diverranno ben presto moduli di uno stile di recitazione considerato esemplare. Vicina, in questa sua ricerca, ai più irrequieti esponenti delle rivoluzioni teatrali di fine secolo e dei primi decenni del Novecento: da Konstantin Stanislavskij a Gordon Craig a Isadora Duncan (dalla Duse molto ammirata, fino a suscitare qualche pettegolezzo sulla natura del loro rapporto).
Quando forma la sua prima compagnia indipendente, la Duse già conosceva Arrigo Boito. Il geniale librettista di Giuseppe Verdi per più di sette anni sarà la sua guida spirituale, il suo maestro artistico e il suo amante clandestino. La introduce negli ambienti della Scapigliatura milanese e adatta per lei tre tragedie shakespeariane (“Antonio e Cleopatra”, “Macbeth” e “Romeo e Giulietta”). Un legame fortissimo, cementato dal miraggio di un nucleo familiare stabile. In realtà, la loro relazione era l’opposto di questa aspirazione alla normalità: si svolgeva fra complicati e fuggevoli incontri e l’amarezza di lunghi periodi di separazione; e soprattutto attraverso un fittissimo. Boito l’aveva liberata dal suo antico complesso di inferiorità nei confronti dell’alta cultura; e le aveva insegnato la religione dell’arte, valore sommo a cui ogni altro bene deve essere sacrificato. All’apice della sua maturità artistica, Eleonora dal 1888 al 1897 espugna i teatri più prestigiosi delle due sponde dell’Atlantico.
Nel 1896 viene ricevuta alla Casa Bianca dal presidente Glover Cleveland. Un onore non concesso a Sarah Bernhardt, che negli stessi giorni recitava a New York. Nel maggio 1897 l’attrice francese subirà uno smacco ben più cocente: la conquista della sua Parigi e del suo “Théâtre de la Renaissance” da parte dell’eterna rivale. La Margherita Gautier della Duse viene osannata da pubblico e critica. Se nel passato il paragone con la Bernhardt poteva sembrare ardito e provocatorio, ora serviva solo a sanzionare la superiorità dell’attrice italiana. Il giudizio di George Bernard Shaw, che le aveva viste entrambe nella primavera del 1895 a Londra, è netto: “Bisogna dire che nell’arte di esser bella la Bernhardt è una povera innocente in confronto alla Duse […].
In occasione della tournée parigina, Gabriele D’Annunzio aveva scritto per lei “Sogno d’un mattino di primavera”. Eleonora lo aveva conosciuto a Venezia, nel 1894. Ne era rimasta affascinata e gli aveva proposto un patto: se avesse composto opere per il teatro, lei avrebbe procurato i mezzi per rappresentarle. Vedeva in quell’uomo dal portamento elegante, con “il sorriso innocente e cordiale di un fanciullo”, il demiurgo capace di infrangere le convenzioni drammaturgiche imperanti. Nel 1898 il poeta affitta la villa trecentesca della Capponcina sui colli di Settignano, sopra Firenze. Era contigua alla Porziuncola, la dimora della Duse. Mentre la relazione con Boito era stata tenuta rigorosamente segreta, quella con D’Annunzio diventa di dominio pubblico dopo la pubblicazione di un romanzo del Vate, “Il fuoco” (1900), colmo di espliciti e inverecondi riferimenti autobiografici. Eleonora ne è scossa, ma lo accetta in nome delle ragioni ultime dell’arte.
Nonostante il suo orgoglio ferito, la Duse continua a rappresentare i testi dannunziani, creando una nuova compagnia con Ermete Zacconi. Per l’allestimento di quello più ambizioso, “Francesca da Rimini”, sperpera un patrimonio. La prima recita romana del “poema di sangue e voluttà”, nel dicembre 1901, è però un disastro. Quella platea che aveva mandato tante volte in visibilio le volta le spalle, e si scatena in un diluvio di fischi e di insulti. Lo sdegno dell’attrice offesa tre anni dopo si trasformerà nel dolore dell’amante frodata, quando “La figlia di Iorio”, il primo vero successo del teatro di D’Annunzio, viene interpretata da Irma Gramatica. Il loro sodalizio, in passato già messo a dura prova da numerose incomprensioni e tradimenti, si scioglie.
Abbandonato il repertorio dannunziano, la Duse recita ancora per quattro anni. Henrik Ibsen è il “suo salvatore”. È di nuovo a Parigi, Londra, Vienna. Al culmine della sua leggenda, si congeda dal palcoscenico nel 1909. Si riavvicina alla figlia Enrichetta, minacciata come lei dalla tisi. Compra una casetta a Firenze, che riempie di libri. Rivede i vecchi amici e convive per un paio d’anni con Cordula Poletti, già compagna di Sibilla Aleramo. Una crisi mistica non le impedisce di coltivare interessi culturali molteplici. Ha tra i suoi interlocutori Paul Clodel, Grazia Deledda, gli intellettuali radunati intorno alla rivista La Voce.
Alla vigilia della guerra, la Duse si trasferisce a Roma. Con il favore delle dame dell’aristocrazia capitolina, la trasforma in una “Casa delle attrici”. Nel 1921 torna a calcare il palcoscenico. A Torino recita, con i capelli bianchi e senza belletto su un viso luminosamente candido, la parte dell’ibseniana Ellida. È esausta, ma deve lavorare. I suoi creditori sono ormai un esercito. Chiede aiuto a D’Annunzio, il “Comandante di Fiume”, ma invano. Grazie a una sconosciuta ammiratrice, Miss Onslow, ottiene un invito per sei recite a Londra. Nel maggio 1923 recita “Gli spettri” di Ibsen. Ora è in grado di onorare i debiti più urgenti. Eterna girovaga, il 10 ottobre si imbarca a Cherbourg per una tournée negli Stati Uniti. A New York l’aspettano folle esultanti e feste sfarzose. Lo stesso a Baltimora, Philadelphia, Cuba.
Avrebbe voluto riposarsi nel tepore primaverile della California, ma non le viene concesso. Deve tornare tra i grattacieli che aveva lasciato cinque mesi prima. Con uno sforzo sovrumano, porta a termine quella che sarà la sua ultima recita. Squassata da una febbre violenta e con i polmoni a pezzi, viene condotta in albergo. Il 21 aprile 1924 cessano le sue torture. La sua bara viene adagiata sulla tolda di una superba nave italiana, il Duilio. Nel porto di Napoli viene accolta come una regina. Poi Roma le tributa nella chiesa di Santa Maria degli Angeli il più solenne dei saluti, finché la sua salma viene deposta nel piccolo cimitero dell’amatissima Asolo, sotto la chiesa di Sant’Anna, dagli amici più intimi e da devoti paesani.