Skip to main content

Ecco le ragioni sociali e finanziarie che portano la Gran Bretagna fuori dall’Europa

corbin, theresa may, Brexit

La Brexit sta evidenziando cesure sempre più profonde nei processi politici europei di lungo periodo che sembravano irreversibili, in particolare sulla libertà di circolazione delle persone. Emergono divergenze profonde negli andamenti economici e soprattutto conflitti insanabili negli interessi finanziari.

Sotto il profilo politico, la Brexit ha aperto il vaso di Pandora della libertà di circolazione delle persone. Purtroppo, si è trascurato che le pressioni migratorie cui è stata sottoposta la Gran Bretagna sono state progressivamente più forti, innanzitutto per via della grande diffusione dell’inglese come lingua veicolare e della preesistente libertà di circolazione all’interno del Commonwealth, che avevano già determinato un afflusso di immigrati molto elevato. Ad esse si è aggiunta la migrazione infra Ue, accentuatasi dopo la crisi. La riconosciuta generosità del welfare britannico ha avuto un impatto esplosivo. Posizioni ostili alla immigrazione sono espresse ufficialmente da parte dei Paesi del Gruppo di Visengrad; in Francia, prendendo spunto dalle misure di sicurezza per combattere il terrorismo, si moltiplicano le indiscrezioni circa l’intenzione del governo di eliminare lo stato di emergenza, estendendo però i controlli di polizia sull’identità personale e vanificando così lo spirito degli Accordi di Schengen; lo stesso ex premier britannico Tony Blair ha affermato di recente che una revisione a livello europeo della libertà di circolazione delle persone sarebbe sufficiente per rimettere in discussione la Brexit. Per ragioni completamente diverse, anche l’Italia ha adottato misure drastiche per limitare l’immigrazione sulla rotta mediterranea.

In Gran Bretagna, il dibattito parlamentare sulla Brexit è giunto all’approvazione in seconda lettura del Great Repeal Bill da parte della Camera dei Comuni. L’esame degli emendamenti, in terza lettura, inizierà il prossimo 25 settembre. Mentre ci sono state defezioni tra i parlamentari Laburisti, con sette dissidenti che hanno votato a favore della proposta di legge, i conservatori sono stati compatti nel sostenere il governo di Theresa May (nella foto): lo scarto è stato complessivamente di 36 voti, molto più ampio di quanto non si prevedesse mesi fa, dopo lo scacco elettorale subito dal premier inglese che aveva chiesto lo scioglimento anticipato scommettendo di rafforzarsi. Si stanno saldando, comunque, tre posizioni: quella unanimemente favorevole al mantenimento della sola libertà di circolazione dei capitali, guidata dalla City; quella che osteggia la libertà di circolazione delle persone, sostenuta dai conservatori; e quella che non vede di buon grado la completa libertà di circolazione delle merci, capitanata dai laburisti.

Dal punto di vista economico, in Gran Bretagna si stanno riaffacciando gli scenari dei tempi andati, impensabili chissà per quanti altri anni ancora nell’Europa continentale: ad agosto, l’inflazione è arrivata al 2,9%, ancora in crescita rispetto al 2,6% di luglio. La erosione del reddito delle famiglie è ormai talmente vistosa da aver convinto il governo ad annunciare un aumento immediato degli stipendi delle forze dell’ordine, raddoppiando il tetto dell’1% che vale per la generalità dei dipendenti pubblici. Il vincolo salterà per tutti, ma dal prossimo anno. La Banca d’Inghilterra, a sua volta, sembra pronta ad alzare i tassi per contrastare la crescita dei prezzi. L’opposizione laburista, guidata da Jeremy Corbin, ha invitato tutti i lavoratori ad iscriversi al sindacato per sostenerne le rivendicazioni salariali, in vista di prossimi scioperi. Questo è il prezzo della svalutazione della sterlina determinato dalla Brexit, e del conseguente maggior costo delle importazioni: il cambio con l’euro è crollato da 1,40 del 2015 ad 1,10 in questo mese di settembre; quello con il dollaro, è passato da 1,55 ad 1,30. Un aggiustamento nei conti commerciali di Londra era indispensabile, ma non basta: gli squilibri finanziari con l’estero pesano ancora di più.

Il problema non è rappresentato dall’economia reale britannica, che anzi continua a crescere con vigore: quest’anno è previsto un +2%, una performance migliore di quella tedesca, plafonata al +1,6%. Il confronto tra Londra e Berlino dimostra come, a partire dal 2012, la Germania abbia sofferto della crisi dell’Eurozona assai più della Gran Bretagna. Mentre la crisi finanziaria americana, che ha caratterizzato il periodo 2008-2011, colpì la Gran Bretagna più severamente della Germania, con il Pil della prima caduto complessivamente dell’1,5% rispetto ad una crescita del 2,9% della seconda, a partire dal 2012 è accaduto il contrario. A partire da allora, e considerando anche l’anno in corso, il pil della Gran Bretagna è cresciuto del 12,3% rispetto ad un ben più modesto 7,8% della Germania: il differenziale di 4,5 punti si spiega con la severità del bilancio pubblico tedesco. Berlino, infatti, a fine 2017 avrà un rapporto debito pubblico/Pil pari al 64,7% rispetto al 65,1% del 2008, dopo aver toccato il picco del 79,9% nel 2012. Londra, invece, a fine 2017 avrà un rapporto debito/Pil dell’89% rispetto al 50,2% del 2008, con una minuscola riduzione rispetto al picco dell’89,2% registrata a fine 2016. In termini di disoccupazione, c’è poca differenza, visto che in Inghilterra quest’anno il tasso è del 4,9% rispetto al 4,2% di quello della Germania.

L’importante, per Londra, non è solo salvare la libertà di circolazione dei capitali, ma soprattutto tornare ad un rendimento adeguato di quelli investiti all’estero. Dalla analisi della bilancia dei pagamenti correnti della Gran Bretagna, e soprattutto dall’andamento delle sue componenti, emergono le profonde divergenze tra gli interessi della Gran Bretagna e quelli della Germania, che sono finanziari e non solo commerciali. Nel 2016, l’attivo di Berlino è stato pari all’8,2% del Pil, mentre il passivo di Londra è stato del 3,3%: la Gran Bretagna ha registrato dunque il peggior risultato nell’ambito del G7 battendo anche gli Usa, che hanno segnato un -2,7% del Pil.

Tra Gran Bretagna e Germania la divaricazione nei conti esteri è andata crescendo: considerando il periodo 2008-2011, quello della prima fase della crisi, il saldo della bilancia dei pagamenti tedesca era stato attivo per un totale pari al 23% del suo Pil, mentre il passivo di Londra era stato dell’11%. Nel periodo 2012-2016 questa asimmetria si è addirittura raddoppiata: mentre la Germania ha accumulato un ulteriore saldo attivo pari al 46% del suo Pil, la Gran Bretagna ha portato il passivo al 24,8%.

Se Berlino aumenta continuamente il suo attivo nella posizione finanziaria netta verso l’estero, il merito non è solo delle partite commerciali, quanto della formidabile contrazione degli esborsi per redditi primari verso l’estero, ed in particolare per gli interessi negativi sui debiti detenuti da non residenti. Di anno in anno, mentre il debito estero di Berlino diminuisce, gli investimenti di portafoglio inglesi all’estero perdono valore.

Gli ultimi dati analitici della bilancia dei pagamenti della Gran Bretagna, riferiti purtroppo solo al 2015, non lasciano dubbi al riguardo: rispetto ad un passivo totale che quell’anno fu pari al 5,4% del Pil, il saldo commerciale era stato negativo per lo 2,1%, quello riferito ai redditi primari ammontava al -2%, e quello concernente i redditi secondari al -1,3%. Ancora più in particolare, il passivo del 2% del Pil relativo ai redditi primari era derivato da un -0,2% sugli investimenti diretti, da un -0,5% sugli investimenti azionari, da un -0,7% sugli impieghi in titoli di debito e da un -0.6% su altri investimenti. Negli anni precedenti, dal 2001 fino al 2011, il contributo del redditi primari era stato invece ampiamente positivo, bilanciando in gran parte il deficit commerciale. Nel 2005, alla vigilia della crisi finanziaria quando i tassi di interesse erano assai elevati dappertutto, la componente dei redditi primari della Gran Bretagna era stata positiva per il 2,4% del P il, rispetto ad una componente commerciale negativa per il 2,6%.

La preponderanza degli investimenti inglesi in Europa, pari nel 2014 ad oltre 3.450 miliardi di sterline rispetto ai 2.600 miliardi investiti nelle Americhe, ha determinato un impatto fortemente negativo sui suoi conti esteri della politica monetaria accomodante della Bce e della Fed: mentre nel 2006, il tasso di ritorno medio incassato sugli asset in Europa era stato del 4,4%, e quello degli investimenti nelle Americhe del 4,8%, nel 2014 il tasso di ritorno sugli asset europei era crollato all’1,6% e su quelli americani all’1,9%. Al confronto, nel 2014 la Gran Bretagna pagava ancora agli investitori europei un ritorno medio del 2,1% ed a quelli americani del 2%.

L’analisi delle componenti della bilancia dei pagamenti della Gran Bretagna rivela le conseguenze geopolitiche delle decisioni della Bce di tenere i tassi di riferimento ad un livello bassissimo, di acquistare enormi quantitativi di titoli del debito pubblico dell’eurozona con il Qe, e la curiosa accondiscendenza di Berlino verso questa strategia: non solo ha contribuito a svalutare l’euro sostenendo l’export commerciale di Berlino, quanto fa pagare ai detentori stranieri del debito tedesco il costo della sua riduzione.

In questi anni, gli interessi politico-sociali, economici e finanziari della Gran Bretagna non sono mai stati così distanti da quelli del resto dell’Europa guidata dalla Germania. Mai Bruxelles è stata così lontana da Londra: questa è la Brexit.



×

Iscriviti alla newsletter