Parigi, Londra. Soltanto venerdì 16 settembre, sono stati due gli attacchi terroristici dei fondamentalisti islamici sul suolo europeo. Attacchi non eccessivamente letali ma sufficienti per riportare all’attenzione degli analisti – oltre che dei cittadini, non dimentichiamolo – il tema del contrasto al terrorismo. Innanzitutto sul piano operativo. Non a caso, proprio nelle ore in cui si verificavano questi attacchi, la stampa inglese rivelava la richiesta di alcuni Stati europei di irrigidire ulteriormente le regole sulla mobilità delle persone all’interno dei confini dell’Unione europea. Che la notizia sia stata tirata fuori dalla stampa londinese potrebbe non essere un caso. Tra i sudditi di Sua Maestà c’è forse un po’ di disappunto per l’atteggiamento delle autorità continentali che nei giorni pari alzano il ditino e accusano Londra di gretta chiusura verso l’immigrazione, salvo poi nei giorni dispari chiedere anche loro un maggiore controllo sui confini.
Infatti Francia e Germania, con il sostegno di Austria, Danimarca e Norvegia, hanno scritto alla Commissione con una richiesta piuttosto hard per le anime pie europeiste: vogliono il diritto di poter reintrodurre i controlli ai confini, all’interno dell’area di Schengen, per un lasso di tempo che possa durare fino a quattro anni. Un diritto che bisogna poter esercitare di fronte a “circostanze eccezionali”, recita il documento, vale a dire di fronte al pericolo terroristico. Già oggi le regole di Schengen possono essere sospese per sei mesi in caso di “minacce serie alle politiche pubbliche o alla sicurezza interna”, prorogando tale sospensione fino a un massimo di due anni. Nel settembre 2015, quando la crisi migratoria raggiunse il suo apice (ricorderete le file chilometriche di richiedenti asilo nei Balcani), alcuni paesi europei che sono all’interno dell’area Schengen – Germania, Austria, Danimarca, Svezia e Norvegia – hanno reintrodotto i controlli ai loro confini. La stessa cosa ha fatto la Francia nel novembre 2015, dopo l’attentato terroristico alla redazione di Charlie Hebdo. Ora che la scadenza dei due anni di sospensione di Schengen si avvicina, ecco la richiesta a Bruxelles: prolungare questa sorta di stato di eccezione per altri due anni.
Una richiesta interessante anche per le sue implicazioni sulla politica migratoria europea. Infatti voler reintrodurre i controlli ai confini interni all’area Schengen equivale, in soldoni, a non fidarsi di quei paesi europei che già oggi dovrebbero vigilare sulle frontiere esterne dell’area Schengen (Italia inclusa). Dietro l’europeismo a parole, insomma, si cela una buona dose di realismo politico da parte del motore franco-tedesco. Specie in materia di controllo dei confini.
D’altronde non sarebbe la prima volta che questi capi di governo da una parte predicano aperture e posture umanitarie in materia di immigrazione, dall’altra assumono un atteggiamento un filo più cauto. Al punto che Politico.eu, spin-off brussellese del giornale online americano Politico.com, adesso scrive che “sull’immigrazione le ragioni di Orbán stanno prevalendo”. Avvertiamo subito gli estremisti umanitari in servizio permanente effettivo: non c’è nessuna “fortezza europea” in vista, l’Europa rimane un unicum mondiale in termini di accoglienza di persone in fuga dalla persecuzione o anche solo dalla povertà. Quel che Politico spiega, però, è che le scelte restrizioniste del contestatissimo premier ungherese non appaiono più come le scelte di un extra-terrestre. Politico.eu infatti osserva come il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker, nel suo recente discorso sullo stato dell’Unione davanti al Parlamento europeo, abbia sottolineato il fatto che “oggi stiamo proteggendo con maggiore efficacia le frontiere esterne dell’Europa”. E abbia pure enfatizzato gli sforzi per fermare i migranti prima che lascino l’Africa o per rimpatriare quelli che sono arrivati in Europa senza averne diritto: “Per quanto riguarda i rimpatri – ha detto il leader con passaporto lussemburghese – Le persone che non hanno diritto di stare in Europa devono essere riportate nei loro paesi di origine”. Juncker ha elogiato lo sforzo umanitario dell’Italia, scrive ancora Politico.eu, “ma le azioni dei governi europei, incluso lo sforzo dell’Italia per bloccare le Ong e la spinta europea a concludere accordi con i paesi africani, ricalcano esattamente le posizioni a lungo sostenute da Orbán. Il premier ungherese infatti aveva invocato una protezione più forte delle frontiere esterne, così come l’apertura di centri per i migranti nei paesi africani e una linea dura sulle Ong, specialmente su quelle straniere”.
Perfino in Germania la figura di Orbán assume in questi giorni tratti diversi da quelli consueti. Ben inteso, il premier ungherese è ancora considerato come la bestia nera della cancelliera (uscente ed entrante) Angela Merkel: lei nell’autunno del 2015 aprì le frontiere del suo paese a quasi un milione di richiedenti asilo siriani, dopo che per settimane Orbán aveva tentato di fermarli al confine ungherese dell’Europa. Eppure tra gli specialisti che hanno studiato le attitudini di Merkel sul fronte migratorio, per esempio, non è ancora chiaro se a invertire la rotta degli imponenti flussi di migranti in arrivo da sud-est alla volta dell’Europa abbia contribuito maggiormente l’accordo tra Bruxelles e Turchia, o non invece la fiera opposizione animata in primis dall’Ungheria per bloccare la cosiddetta “rotta balcanica”. Quel che è certo è che la CSU, partito bavarese storicamente alleato con la CDU merkeliana, ha appena invitato il mefistofelico Orbán a partecipare alla propria campagna elettorale. Con l’obiettivo – questo il paradosso – di convincere i tedeschi a rieleggere la Merkel.